Conviene ragionare del paradosso per cui le pecche della riforma costituzionale, a Cacciari addirittura «fa schifo», non intaccano le ragioni del Sì. E confrontarsi nel merito coi molti intellettuali, profondi conoscitori della storia del paese, con lunga militanza a sinistra, schierati per la riforma.

Tre sono gli argomenti a cui si possono, semplificando, ricondurre le loro tesi.

1) NONOSTANTE I DIFETTI, la riforma va «nella direzione giusta», mette una toppa ai pasticci della riforma al titolo V del 2001, e si affinerà in corso d’opera.

Obietterrei con un’osservazione terra terra: c’è una contraddizione tra un Senato delle autonomie e la sua elezione in base alla popolazione. Stando alle stime, la Lombardia avrebbe 14 senatori, la Campania 9, il Piemonte e il Veneto 7, l’Emilia-Romagna 6, il Lazio 7, dieci regioni solo 2 senatori ciascuna.

Col che si creerebbe un blocco potenzialmente dominante di regioni popolose, affiancato da quelle autonome e privilegiate, a scapito di quelle medie e specie meridionali che conteranno poco e riceveranno meno. Un tale sistema di rappresentanza farebbe delle autonomie una stampella delle cordate di maggioranza alla Camera.

Per i fautori questo sarebbe un vantaggio, una soluzione centralista agli eccessi del 2001. Ma se si aggiunge l’ impossibilità di svolgere bene il doppio mandato di senatore e consigliere, o sindaco, ne risulta un Senato al traino dei partiti nazionali e delle aree dominanti.

Come si comporterà un simile sistema istituzionale quando si tratterà di stabilire gli «interessi nazionali»? Dove sono le garanzie di solidarietà tra le regioni forti e quelle deboli?

La prospettiva, del resto già in atto, di un’Italia a chiazze, con standard diversi nei diritti sociali, dovrebbe dare da pensare soprattutto ai cittadini meridionali e agli abitanti dei territori soggetti alle grandi opere.

Un’anticipazione è nella riforma universitaria, che dal 2010 sta concentrando risorse in alcune aree del centro-nord a spese del centro-sud, come documenta un accuratissimo volume a cura di Gianfranco Viesti.

2) IL FASCINO DEL SÌ sta in un dato psicologico, che si fa beffe di ogni argomento giuridico. Il voto del Sì è contro il No, ovvero contro il proprio passato, contro le delusioni generate dalla sinistra o dai precedenti governi.

Si vota contro «l’accozzaglia», contro i D’Alema, i Mussi, i Bersani, i professoroni, i magistrati, in qualche caso contro Berlusconi, soprattutto contro gli ideologismi del proprio passato, quasi per una liberatoria catarsi collettiva, finalmente esprimendo un voto pragmatico a sostegno dell’azione riformatrice del governo.

Magari hanno ragione questi neo-moderati a disdegnare le esagerate denunce di degenerazione autoritaria, meno a rivendicare una lungimiranza riformatrice.

Dopo una vita all’ opposizione, tanti elettori di sinistra, molti i pensionati e i redditi fissi, hanno scelto il governo contro la montante marea populista. Ma come dimenticare che la attuale costituzione trova sostegno nei «populisti», mentre la nuova costituzione riformata produrrebbe una lacerazione legittimata anche dalla sinistra? Forse a una fetta larga dell’elettorato del Pd è mancata una spiegazione dell’ascesa di Renzi nel cuore del centro-sinistra, per cui lo hanno accolto come parte della propria storia. Dal 5 dicembre, comunque vada, ci vorrà un’analisi concreta sui molti errori di una sinistra autoreferenziale e sulle condizioni per non ricadervi.

3) DOPO RENZI IL DILUVIO, ma se Draghi chiuderà l’ombrello la nuova costituzione non ci proteggerebbe dal temporale. Il plebiscito serve a una narrazione di rottura col passato, che cancelli la memoria di un ventennio di continue invenzioni – il maggioritario di Segni, il liberalismo di Berlusconi, la lotta contro la casta, l’abrogazione dell’art. 18, ecc., che hanno aggirato i nodi del paese, aggravandoli.

La riforma, nel promettere cose che non può mantenere, offre un nuovo alibi ad un blocco sociale fondato principalmente sulla rendita e sui bassi salari.

Il giudizio appare brutale e richiederebbe sfumature, ma l’interrogativo se Renzi punti alla modernizzazione del paese o a qualche misero maquillage non ha trovato risposte positive da tre anni. Il dubbio è se Renzi rappresenti la politica che ci protegge dal governo tecnico o la continuazione movimentista del commissariamento.

Ai sostenitori del Sì va chiesto come possano sopportare la responsabilità di una riforma che mira ad abbassare le aspettative di una parte del paese e ne ridurrebbe la coesione.

Un’opposizione di sinistra intelligente dovrebbe svelenire il clima plebiscitario e dare sin d’ora la disponibilità a un governo politico di scopo in caso di vittoria del No, anche a guida Renzi.

Una prospettiva di stabilità scongelerebbe gli incerti e toglierebbe l’alibi della mancanza di alternative.

* Università di Bari