Se continua così, c’è il rischio che al confronto di domani sera su Sky per le primarie del Pd i contendenti si presentino tutti mascherati da Emmanuel Macron. Nel palazzo della politica italiana, dall’altro ieri notte, i Macron non si contano, e mica solo a sinistra: Brunetta, Letta, Parisi, la ministra Fedeli, Gasparri, Renzi.

Onore al ministro Calenda, l’unico a segnalare che questa «macronizzazione» collettiva è un po’ ridicola oltre che tragicamente provinciale. Furoreggia anche una incresciosa sfida a «chi è il più Macron del pollaio».

Domanda retorica: è Renzi naturalmente, che anzi è più Macron dello stesso Macron, tanto da aver fatto da modello all’epigono. Così la pensa Andrea Romano: «Matteo è molto più Macron di Orlando, perché ha uno spirito di riforme più coraggioso. Macron si è ispirato a Renzi».

Va da sé che il primo a suggerire il gemellaggio è proprio Renzi: «Bravo Macron. La sfida inizia adesso e riguarda anche l’Italia. Avanti insieme!».

Avanti sì, ma verso dove? Verso una guerra su due fronti che i cugini latini devono combattere spalla a spalla: «Chi ama l’ideale europeista sa che gli avversari sono i populismi. Ma sa anche che l’Europa è un bene troppo grande per essere lasciato ai soli tecnocrati».

Qualche somiglianza tra il francese e l’ex premier italiano c’è davvero, anche se ieri erano in parecchi a scalmanarsi per dimostrare il contrario, a partire da Massimo D’Alema: «Macron si è presentato come nuovo e alternativo al vecchio ordine. Renzi del vecchio ordine è il caposaldo». Velenoso anche se mai come il più laconico Rotondi: «Renzi come Macron? Dovrebbe dimagrire».

Maniglie dell’amore a parte, qualcosa in comune i due ce l’hanno: non è tanto l’essere «né di destra né di sinistra», che quella ormai è merce comune, e nemmeno il presentarsi come alternativi a un establishment di cui fanno parte.

È l’aver portato a compimento il processo di sganciamento della politica da qualsiasi ambizione progettuale e visione per derubricarla a faccenda di pura amministrazione.

La sfida è a chi promette di amministrare meglio, e da questo punto di vista i due campioni si equivalgono, avendo uno alle spalle un premierato fallimentare e l’altro due anni di guida dell’economia in un governo altrettanto disastroso.

Poi c’è naturalmente l’effetto tv, e su quel piano è normale che il futuro segretario del Pd miri a sfruttare l’occasione. Tra una settimana uscirà trionfatore dalle primarie, e ci tiene a che sia proprio trionfo: dovendo scegliere tra un afflusso alle urne più massiccio con il rischio di vincere solo di qualche lunghezza e quello di stravincere ma con una platea più esigua ha scelto senza esitazioni la seconda strada.

Da domenica prossima si comporterà come se le primarie del suo partito fossero in realtà il primo turno delle elezioni politiche, cercando probabilmente di arrivare al secondo, le vere elezioni, il prima possibile per sfruttare l’onda.

Il problema è che Renzi, a differenza di Macron, non è in grado di mobilitare gli indecisi contro un nemico. Se insiste sulla comune guerra contro «i populisti» è proprio perché sa che a lui manca l’asso nella manica del francese, la chiamata alle armi contro i nemici della République. M5S, per quanto si sforzi, non è il Front National.

Però non si sa mai. In Francia, come prima in Austria e Olanda, spira un vento neo-europeista: vedi mai che non si riesca a fare della difesa dell’Europa quello che è in Francia la salvaguardia della Repubblica.

Emiliano, travolto da una così impetuosa identificazione del rivale col vincitore, si ritaglia il ruolo di consigliori e disserta su quel che dovrebbe fare il francese, «allearsi con Mélenchon», e su quello da cui dovrebbe invece guardarsi, «fare gli errori di Renzi abbandonando gli elettori di sinistra».

Anche a destra imperversa la corsa per intestarsi il risultato francese.

Toti gioca d’anticipo. Guai a chi «non accetta di cambiare la storia del centrodestra italiano in qualcosa che risponda all’elemento di novità interpretato da Macron». Le repliche dei fedeli di Arcore arrivano a stretto giro.

«È un lib-lab come me», giura Brunetta. «Serve un centrodestra che, per quanto moderato, dovrà essere chiaro nei suoi toni», duetta Gasparri.

Il più soddisfatto di tutti non si pronuncia. Silvio Berlusconi aspetta la vittoria definitiva del «moderato» contro la «salviniana» Le Pen per passare all’incasso sul tavolo della destra italiana.