«Homeland. Iraq Year Zero» (2015) di Abbas Fadhel

Ahmed Yassin Al-Daradji nel 2003 aveva diciassette anni. La guerra ha cambiato la sua vita, come quella di chiunque altri, rafforzando col passare del tempo la sua scelta di non prendere le armi ma di combattere con la cultura. E, in particolare, col cinema. Il suo Hanging Gardens (2022), esordio nel lungometraggio dopo il molto applaudito Children of God, corto di diploma alla London Film School, è stato presentato alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti Extra, e proprio al Lido, l’anno precedente, il progetto aveva vinto il Final Cut di produzione.

Il titolo si riferisce ironicamente al soprannome dato alla discarica di Baghdad dove due fratelli orfani, As’ad, ancora ragazzino, e Taha, già adulto, si guadagnano da vivere raccogliendo rifiuti. Finché il più piccolo trova una bambola gonfiabile lasciata dagli americani che parla inglese. Se ne prende cura, le dà un nome, e insieme al suo amico inizia a sfruttarla come prostituta. «La discarica è un mondo a parte, un po’ come l’Iraq che dagli anni Ottanta in poi si è trovato sempre più isolato dal resto del mondo a causa delle sanzioni. La dittatura ha lasciato un segno profondo, per questo oggi nel Paese manca un equilibrio» dice il regista che tra i riferimenti di questa sua opera prima girata a Baghdad indica Vittorio De Sica e il suo Ladri di biciclette. «Avevo girato dei documentari, mi interessava mantenere un rapporto aperto tra realtà e finzione, qui abbiamo usato l’illuminazione naturale e ho scelto gli attori nel mio quartiere».

Ahmed Yassin Al-Daradji è uno dei giovani registi protagonisti di quella che da molte parti viene definita la nuova stagione del cinema iracheno, e che coincide con la ripresa generale del Paese dopo decenni di instabilità. Molti di loro si sono formati all’estero e sono tornati nel dopoguerra con l’obiettivo di raccontare un presente iracheno di cui si sentono parte attiva, e nel quale vogliono affermare la propria voce.«Il cinema ci permette di fare una rivoluzione altrove impossibile mostrando la nostra visione del mondo» dicono. Le loro storie partono dalla realtà, si muovono tra generi diversi, intrecciano finzione e documentario, provano a smantellare gli stereotipi per affermare una narrazione personale, non mediata dallo sguardo occidentale né dai dettami governativi.

In questo senso un film come Hanging Gardens è emblematico, il suo romanzo di formazione mette in gioco tabù quali la sessualità maschile, la violenza, la frustrazione. «La società irachena è fortemente patriarcale, le giovani generazioni, chiedono nuove libertà e possono costruire una democrazia. Questa storia per me rappresenta l’Iraq di adesso al di là dell’immaginario della guerra».

Yad Deen ha lasciato l’Iraq quando aveva un anno, la famiglia, di origine curda, si è rifugiata prima in Iran poi a Londra. Una decina di anni fa Deen ha aperto una società di produzione e per la formazione di giovani registi in Iraq, e ha girato nella zona intorno alla città curda di Sulaymaniyah il premiatissimo Carga (2018), su due registi spagnoli che vogliono realizzare un documentario in una vecchia fabbrica di sigarette abbandonata. Un gruppo di giovani artisti l’ha poi riconvertita in uno spazio per l’arte digitale.

«La storia del cinema in Iraq inizia nel secolo scorso, negli anni cinquanta l’industria è florida anche se con pochi film artisticamente innovativi. Il regime di Saddam, l’invasione americana, la guerra l’hanno completamente distrutta. Saddam aveva nazionalizzato l’industria ma alla fine si producevano per lopiù film di propaganda anche con grandi registi, cone Tawkis Salah che era egiziano. A Baghdad quando ero ragazzino c’erano almeno trenta sale, con la mia famiglia andavamo spesso al cinema. Poi la censura e l’isolamento causato dall’embargo c le hanno spente. Nel periodo tra la prima e la seconda guerra del Golfo tutto era vietato, anche andare al cinema» racconta Abbas Fadhel. L’Iraq lo ha lasciato quando aveva diciotto anni per studiare in Francia, ora vive in Libano – dove ha girato i suoi ultimi film, fino al più recente Tales of the Purple House (2022) – e preferisce definirsi «cittadino del mondo».

Eppure il suo Homeland. Iraq Year Zero (2015) – titolo che si riferisce esplicitamente al Germania anno zero di Rossellini condividendone l’urgenza storica – è il film che segna una cesura per l’immaginario nella rappresentazione della guerra del 2003, mostrata per la prima volta dal punto di vista iracheno. Cosa racconta il film? L’Iraq prima e dopo l’invasione americana attraverso il microcosmo di una famiglia, quella del regista, i cui componenti diventano personaggi: il cognato, che lavora alla radio irachena la cui sede sarà distrutta dai bombardamenti, la nipote studentessa, il nipote che con la sua vivacità diviene il centro del film. Dall’attesa in cui l’ansia si intreccia a una certa spensieratezza, e la famiglia scava un pozzo in giardino per avere l’acqua potabile, copre le finestre per salvare i vetri su cui si colgono ancora i segni dell’attacco nel 1991, accumula pane per fronteggiare la fame mentre la televisione inneggia alla gloria di Saddam, si passa al caos totale. Il ragazzino che vediamo crescere nel tempo muore ucciso da un cecchino, Fadhel traumatizzato riprende in mano il materiale dieci anni dopo e riesce a montare il suo film: cinque ore in Iraq oltre la cortina delle news d’epoca, nella vita quotidiana tagliata fuoricampo. «Homeland non è mai stato proiettato in Iraq però i giovani lo hanno visto, mi considerano un po’ un padre» dice il regista che ora ha un nuovo progetto nel suo Paese.

Anche Netflix ha mostrato interesse per la produzione irachena, e nel 2016 grazie al successo delle serie, Hikmat Muttashar Majeed al Beedhan, direttore del Dipartimento di Cinema del Baghdad College of Fine Arts, ha aperto Art City, casa di produzione che cerca di sostenere i registi iracheni e offrire loro opportunità di scambio con l’estero. A Baghdad c’è lo studio del Melon City Show, il programma comico creato da Ali Fadel. Fanno satira su tutto e su tutti, a cominciare dal governo, per questo li amano e li odiano ma le minacce, come dicono, sono parte della vita.