Le immagini di quest’ultime settimane hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il dramma degli sbarchi, con l’arrivo sulle nostre coste e su quelle greche di migliaia di persone in pochi giorni. L’affondamento di alcuni natanti utilizzati per queste traversate ha avuto, come tragico e inevitabile corollario, la perdita di centinaia di vite umane. Tali tragedie hanno, come sempre, fortemente colpito la pubblica opinione e il mondo politico, ma anche questa volta l’attenzione si è ben presto spostata dal cordoglio alla ricerca del modo più efficace per fermare un flusso considerato inarrestabile e ormai senza controllo.
Del resto, è questa la preoccupazione che emerge con più forza nella discussione pubblica ed è a questo timore che tenta spesso di rispondere la politica anche per cercare di sottrarre spazio alle forze che con più vigore cavalcano i sentimenti anti-immigrati. Ma quali sviluppi potrà avere il fenomeno nei prossimi anni? E soprattutto è realistico pensare di poter fermare i flussi migratori? Queste semplici domande di buon senso restano spesso ai margini di un dibattito in cui dominano i toni accesi e le facili certezze.

Se, invece, partiamo dai dati di fatto a disposizione, la prima considerazione da fare è che il decennio che ha preceduto la crisi è stato caratterizzato da una crescita straordinaria del fenomeno, specie nell’Europa meridionale. Nello scorso decennio, Spagna e Italia hanno infatti registrato complessivamente un saldo migratorio positivo di 8,8 milioni di unità non molto lontano dai 10,5 milioni degli Stati uniti, che però hanno un numero di abitanti tre volte più grande dei due paesi europei messi insieme. Nello stesso periodo, il guadagno migratorio complessivo dei paesi più sviluppati è stato di 34 milioni di persone a svantaggio ovviamente di quelli meno sviluppati, con un incremento di 9 milioni rispetto al periodo 1990-2000 e addirittura di 20 nei confronti degli anni ottanta del secolo scorso.

È evidente che il mondo ha conosciuto una formidabile accelerazione della mobilità internazionale a partire dalla caduta del Muro di Berlino, con un interscambio netto che è più che raddoppiato in vent’anni. La fine dei regimi del socialismo reale ha sicuramente pesato su questo risultato, che è però anche conseguenza della crescente integrazione determinata dalla globalizzazione e dei ben noti fattori di spinta e d’attrazione di natura demografica, economica e sociale. Fattori che hanno continuato la loro azione anche in questi anni di crisi, che hanno visto una riduzione delle migrazioni molto più contenuta di quanto non ci si attendesse. Il risultato è che nel 2013 il numero totale di migranti, delle persone cioè che vivono in un paese diverso da quello di nascita, è aumentato ancora arrivando a 231,5 milioni, con un incremento di 10,8 milioni di unità rispetto al 2010 e di 57 milioni nei confronti del 2000. Al contrario di quanto si potrebbe pensare la parte più cospicua (36%) di questi 231,5 milioni di migranti è attribuibile a flussi tra i paesi del Sud del mondo, una quota molto vicina (35%) a quelli tra Sud e Nord, il 23% a movimenti interni alle regioni sviluppate e appena il 6% agli spostamenti tra il Nord e il Sud del pianeta.

Di fronte a fenomeni di queste dimensioni è evidente che appare del tutto irrealistico pensare che le migrazioni possano fermarsi dall’oggi al domani. E, infatti, nelle ultime previsioni delle Nazioni unite viene considerato un leggero rallentamento del fenomeno rispetto agli alti valori dello scorso decennio. In particolare, secondo i demografi della Population Division il saldo migratorio dei paesi sviluppati dovrebbe scendere dai 34 milioni del periodo 2000-2010 ai 25,6 dell’attuale decennio e stabilizzarsi tra i 22 e i 23 milioni tra il 2020 e il 2050. Sarà veramente così? Sono affidabili queste previsioni? Le stime delle Nazioni unite sono al momento le valutazioni più probabili alla luce delle informazioni disponibili, ma alla prova dei fatti potrebbero anche rivelarsi ben lontane dalla realtà.

Il fenomeno migratorio è infatti il risultato di complesse interrelazioni tra scelte individuali, contesti familiari e comunitari, dinamiche demografiche, strutture e processi economici e sociali, politiche nazionali e internazionali. La storia delle migrazioni internazionali mostra chiaramente come sia l’interagire di tutti questi elementi a determinarne le dimensioni, con accelerazioni e rallentamenti anche repentini e imprevisti. Appare però improbabile che le migrazioni possano scomparire dal nostro orizzonte e non solo perché, come mostrano i risultati di molte ricerche, hanno molti più effetti positivi di quanto comunemente si creda, ma perché difficilmente potremo farne a meno.

Dal punto di vista demografico, ad esempio, la necessità delle migrazioni appare chiaramente dall’andamento della popolazione in età lavorativa. Senza migrazioni, questo aggregato diminuirebbe tra il 2010 e il 2050 di 175 milioni nei paesi più sviluppati e aumenterebbe nello stesso intervallo di tempo di 1,66 miliardi in quelli meno sviluppati. La diminuzione più rilevante si avrebbe in Europa, dove questa parte della popolazione scenderebbe di 134 milioni e un calo veramente cospicuo si registrerebbe in Italia, dove si passerebbe da 39,7 a 26,6 milioni. Circa metà dell’incremento delle regioni in via di sviluppo è attribuibile all’Africa sub-sahariana, con un aumento medio annuo di 21 milioni di persone in età lavorativa, mentre la crescita dell’Africa del Nord sarebbe di “soli” 2,2 milioni annui per effetto della chiusura della fase della transizione demografica di più elevata crescita e un evidente rallentamento a partire dal 2040. In calo i valori anche in Cina, che non a caso sta già attirando flussi migratori a bassa qualificazione da altri paesi.

Non bisogna poi dimenticare che altri fattori concorreranno ad aumentare l’offerta e la domanda di migrazioni. Nei paesi d’emigrazione, oltre alle dinamiche demografiche, peseranno nei prossimi anni altri elementi: il persistente ritardo economico con le aree più sviluppate e l’ancora elevato differenziale salariale; la crescita economica che farà entrare molti dei paesi più poveri nella fase di maggiore emigrazione; l’esodo rurale e l’urbanizzazione che sono le premesse più dirette agli spostamenti verso altri paesi; la crescita dei livelli d’istruzione, con un aumento della quota di popolazione più disponibile e più interessata all’emigrazione; gli stress ambientali che possono provocare flussi forzati di popolazione.
Nei paesi d’immigrazione, invece, va considerato che l’invecchiamento della popolazione farà aumentare la domanda di personale da destinare alla cura del crescente numero di anziani, mentre le esigenze dell’economia globale porranno sempre più la necessità di colmare in tempi rapidi le lacune di manodopera che si presenteranno alla base o al vertice della scala occupazionale.

Infine, non c’è da sottovalutare il peso delle migrazioni per ragioni politiche, e da questo punto di vista la situazione attuale dell’area mediterranea appare veramente critica. Le primavere arabe non hanno contribuito a stabilizzare una regione in cui non mancavano già prima conflitti e crisi. La situazione più difficile è quella siriana, dove l’Alto commissariato delle Nazioni unite quantificava a metà dello scorso anno in 9,6 milioni le persone bisognose di assistenza, di cui 6,5 milioni all’interno del paese e il resto nei paesi vicini. In questi ultimi mesi la situazione non è certo migliorata e le cifre potrebbero quindi essere diventate ancora più consistenti. Nel vicino Iraq, le persone sotto protezione erano 2,4 milioni e anche qui gli sviluppi recenti non hanno certo contribuito a ridurne il numero.

A questi valori vanno poi aggiunti i 2,9 milioni di sudanesi sotto protezione, i 2,3 milioni di somali e il mezzo milione di eritrei ed etiopi nella stessa condizione. Si tratta di milioni di persone che sono già state costrette da guerre e persecuzioni a lasciare le proprie case: un enorme bacino potenziale di migranti che trova nel caos libico il terreno ideale per tentare di arrivare nell’agognata Europa. È anche evidente però che di fronte a questi numeri, le 570 mila richieste d’asilo registrate nell’Unione europea nel 2014, per quanto rilevanti e in crescita, mostrano quanto possa essere ampio lo scarto tra il potenziale di migrazione (in questo caso per ragioni politiche) e i flussi effettivi.

In definitiva, in questo quadro è difficile che le migrazioni scompaiano, anche perché difficilmente potremo farne a meno.

* CORRADO BONIFAZI è direttore dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr. Ha pubblicato «L’immigrazione straniera in Italia» (ed. Il Mulino, 2007) e «L’Italia delle migrazioni» (ed. Il Mulino, 2013).