È dai giorni immediatamente successivi ai bombardamenti turchi nella regione del Rojava che chiediamo ai compagni del Pse di organizzare una visita di solidarietà nel Kurdistan.

Pensiamo che sia giusto esprimere concretamente la nostra vicinanza ai curdi dopo le manifestazioni che hanno riempito le piazze italiane come quelle di tutta Europa. Il modo per avvicinarsi di più al teatro di guerra e alle popolazioni colpite è passare dalla Turchia.

L’adesione, nonostante l’impegno e la determinazione di Giacomo Filibeck del segretariato Pse, non è esattamente entusiastica, per usare un eufemismo. Alla fine a partire per il Kurdistan turco siamo io, Luciano Vecchi, che da sempre si occupa per il Pd di politica internazionale, Giacomo Filibeck, vice segretario del Pse ed Evin Incir, una giovane europarlamentare svedese di origine curda che guida la delegazione.

Arriviamo il 21 novembre sera a Diyarbakir, la capitale virtuale di una regione virtuale: il Kurdistan turco. Per le autorità di Ankara i curdi semplicemente non esistono, li definiscono turchi di montagna. Diyarbakir è una città cresciuta in fretta, ci spiegano i dirigenti del Hdp della delegazione guidata da Hisyar Ozsoy, vice presidente del partito e responsabile relazioni internazionali, membro del parlamento di Ankara, anche per la presenza di militari e popolazione turca “convogliata” al fine di “riequilibrare” il rapporto tra le etnie.

Attorno alla vecchia città murata c’è una periferia ordinata e anonima più vicina ai nostri piani di edilizia popolare degli anni ’80 che alle periferie del socialismo reale o alle baraccopoli del mondo arabo. Palazzoni di recente costruzione formano isolati monotoni ma di buona qualità. Lungo i corsi principali, gli stessi locali che trovi in una città media europea, pizza, etnici, caffè dai neon sgargianti.

La cena ci è offerta in un grande ristorante popolare con i tavoli di legno e in bella vista enormi cocomeri, la gloria dell’agricoltura locale. Menù rigidamente musulmano. La composizione della tavolata corrisponde assai meno ai cliché islamici. Le donne, infatti, costituiscono la larga maggioranza della delegazione ospite.

L’Hdp si è dato questa regola, direzione duale a tutti i livelli nel partito nelle istituzioni. Ogni volta che viene conquistato un municipio la prima delibera istituisce la direzione duale dell’ente. Un uomo e una donna governano il comune sino a che, puntuale e per le ragioni formali più diverse, non arriva il decreto di scioglimento del comune da parte del governo turco. Le ragioni adottate sono varie, ma l’esito è lo stesso, puntuale. L’autogoverno locale curdo contraddice l’inesistenza postulata di questo popolo.

In uno Stato che non ha rinunciato a essere una grande democrazia non si può impedire il voto, si può disconoscerne però l’esito come è avvenuto recentemente a Istanbul con la vittoria alle elezioni per il governo locale, il principale partito di opposizione che è visto costretto a ripetere il voto, dopo una prima vittoria, per arrivare alla conquista della più grande città turca.

Ma questa è un’altra storia, anche se sino a un certo punto come vedremo più avanti. Poiché i curdi come abbiamo visto per Ankara non esistono, dunque non può neppure esistere un partito curdo e questa, insieme alle accuse di terrorismo, peraltro fondate in alcune fasi storiche, è stata la ragione dello scioglimento di non si sa più quanti partiti a prevalente base etnica fondati dai curdi dai tempi di Ataturk in poi.

L’ennesima reincarnazione è appunto l’Hdp che alle ultime elezioni ha superato il proibitivo sbarramento del 10%, con quasi un milione di voti a Istanbul, raccogliendo consenso anche nella maggioranza turca.

Il leader dell’Hdp, Selahattin Demirtas

 

Dopo la cena visitiamo la casa del segretario dell’Hdp, Selahattin Demirtas, ci accolgono la moglie e le figlie in uno spoglio ma moderno appartamento della periferia della città, lui da due anni è in carcere con l’accusa di terrorismo nonostante sia stato protagonista della svolta moderata e dialogante del suo partito.

Non può ricevere nessuna visita se non quella dei familiari. Dopo il nostro ritorno abbiamo saputo che è stato colpito da un infarto. Quello che ci colpisce subito è la misura e la dignità dei nostri interlocutori. Quasi un fatalismo per il succedersi di fatti che non si possono impedire ma che sono conseguenza della difesa di un diritto a esistere.

È lo stesso fatalismo che troviamo nelle parole di Hisyar, il deputato che guida la delegazione: ci spiega che mette nel conto, alla fine del suo mandato, di essere ospite delle galere turche. Lo sa ma continua il suo lavoro politico.

La mattina dopo si parte presto per il confine con la Siria, sempre accompagnati dai curdi, nella cui delegazione è aumentata la presenza maschile, sono uomini anziani, con volti che somigliano a quelli dei nostri contadini del dopoguerra, baffi, volti segnati, giacche larghe di lana spessa.

Arriviamo nella zona di sicurezza dove inizia a seguirci una nutrita pattuglia della polizia turca in modo tutt’altro che discreto. Sono giovanotti tra i 25 e i 35 anni con taglio di capelli occidentale e Rayban. Per chilometri e chilometri lungo il confine corre un muro presidiato da torrette e cavalli di Frisia.

Di là c’è la Siria e sino a qualche tempo fa le truppe americane con le milizie curde. Il muro ha spaccato in due il villaggio di Nusaybin dove veniamo accolti nella sede locale dell’Hdp, i poliziotti turchi ci seguono sino alla soglia del malandato fabbricato che ospita la sede.

Dentro la sede addobbata con le bandiere dell’Hdp e le fotografie di Demirtas incontriamo i militari del luogo e poi delle anziane vestite di bianco. Sono le madri per la pace, donne che hanno subito la perdita di un congiunto nel succedersi di conflitti che hanno segnato questa area. Ci tengono a farsi fotografare con noi e a raccontarci del loro gemellaggio con le “abuelas de Plaza de mayo” argentine.

In bianco, le «madri per la pace»

 

Alla conferenza stampa che segue l’incontro e nella quale spieghiamo le ragioni della nostra visita una di loro prende la parola, per dire cose che somigliano poco a ciò che si dice e si è detto in questi anni nel resto del Medio Oriente.

«Il nostro nemico è la guerra non i turchi, noi viviamo lo stesso dolore delle donne turche che hanno perduto un figlio o un nipote. Vorremmo che l’Europa si occupasse di più di noi». Per tatto evitiamo di spiegare alla coraggiosa interlocutrice che per l’Europa la Turchia è uno dei principali partner commerciali. E che i governi europei sono terrorizzati dall’idea che Erdogan sganci la bomba profughi. Una bomba che è diventata sempre più potente anche grazie alla costante propaganda d’odio diffusa dai populisti europei che hanno giocoforza aumentato il capitale di deterrenza del sultano turco.

Continuiamo la nostra mesta spedizione visitando le famiglie colpite dai bombardamenti di ottobre. Secondo i curdi si è trattato di bombe turche lanciate dagli aerei mentre si sviluppavano i bombardamenti sul Kurdistan siriano. Certo è che i turchi si sono affrettati a cancellarne le tracce.

I nostri accompagnatori ci mostrano un balcone appena ricostruito, l’asfalto rappezzato in tempo record. Ciò che non si cancella però sono i morti. Il marito di una donna di 21 anni con tre figli che ci ospita nel suo salotto con i suoi piccoli che ci guardano curiosi. E quello di un’altra di una decina di anni più grande, prole numerosa. Avevano passato il confine per sfuggire alle bombe, il marito sbarcava il lunario con dei lavoretti. Le stesse bombe lo hanno colpito di qua dal confine. La donna è lapidaria: siamo curdi, dove andiamo ci ammazzano.

Ora lei è sola. I parenti sono al di là del muro che dopo i bombardamenti è diventato più alto. Lei e i suoi figli vivono grazie al magro sussidio turco che ha paura di perdere, per questo si guarda intorno circospetta.

Non sappiamo se la sua misura nel raccontare il lutto sia ancora la manifestazione della dignità o la conseguenza della paura di ritorsioni. Fatto sta che non vediamo una lacrima, non ascoltiamo un lamento.

È la stessa domanda che ci poniamo incontrando una madre di due figli, uno morto sotto le bombe , l’altro in carcere. Ci spiega che le hanno offerto un appartamento nuovo, nella sua casa malandata piove, ma lei no, non vuole andarsene, dove vogliono mandarla non conosce nessuno e lei si arrangia facendo le pulizie nelle modeste case del circondario.

È di un padre che perduto un figlio della mia età la manifestazione più esplicita del dolore. Ma anche in questo caso nessuna lacrima. Il vecchio magro sta davanti alla sua tribù il cui capo era da tempo il figlio scomparso. Sta lì piegato in due, ci ringrazia, lo sguardo perso nel vuoto. Intanto, gli esuberanti poliziotti turchi continuano i loro servizio fotografico. Li salutiamo augurandoci, scherzando, che le foto siano venute bene. Non hanno senso dell’umorismo.

Riprendiamo la strada per Mardin, la splendida città costruita dagli arabi su una collina e poi conquistata dai curdi che oggi la abitano in larga prevalenza. Qui, a pranzo, in un albergo ricavato da un antico palazzo arabo ci attendono i dirigenti Hdp della zona e i sindaci e le sindache della regione, quelli in carica e quelli deposti. Qualcuno manca all’appello sono quelli incarcerati. Ce lo spiegano con il tono cui si parla di un contrattempo.

Ci raccontano del loro lavoro per recuperare gli spazi verdi e abbandonati dei loro villaggi, dello sforzo per aumentare i servizi alla popolazione, sino al momento della deposizione.

Dopo si ricomincia, altra campagna elettorale, altra vittoria e via da capo con altri amministratori ma lungo la stessa traiettoria. Per ora l’incremento forzato della presenza turca non altera questo ciclo. «Li faremo diventare curdi», scherzano.

Le uniche casematte che Erdogan è riuscito a redimere per ora sono le moschee, costruite in gran numero in questa parte della Turchia, quasi sempre vuote per una popolazione in larga parte musulmana ma non praticante e comunque largamente laica.

Chissà chi ci andrà, si chiede Hisyar indicandone una enorme e nuova di zecca costruita sotto la collina su cui sorge la parte antica di Diyabarkir e lungo le sponde del fiume Tigri. Proprio il Tigri, quello della mezzaluna fertile che, come ci hanno insegnato a scuola, con l’Eufrate ha dato origine al nostro mondo.

Rientriamo non senza le attenzioni di un poliziotto che in aeroporto ci chiede conto delle ragioni della nostra visita. Si vede che le conosce ma ha disposizioni di fare domande. Noi rispondiamo, ragioni politiche, l’Hdp fa parte del Pse.

Non sembra soddisfatto. Ci chiede se siamo deputati, alla risposta affermativa si fa più minaccioso. Si ferma alla parola governo. Pensa ci siano membri del governo. Si rasserena quando spieghiamo che io sono soltanto «the former minister». Ci rende i passaporti dopo averci detto che non apprezza questo genere di visite. Non ne capisce la ragione. Noi le ragioni, tutte le ragioni le abbiamo comprese meglio lasciando Mardin.

L’intervento militare di Ankara ha isolato in ogni senso i curdi. Internamente dove si stava sviluppando il dialogo con il principale partito d’opposizione progressista ma pur sempre kemalista e quindi nazionalista, che allo scoppio del conflitto nel Rojava non ha saputo sottrarsi al richiamo all’unità patriottica, né forse voluto, anche a causa degli storici rapporti con le forze armate. Ed esternamente perché la distruzione dell’organizzazione istituzionale sorta nel Kurdistan siriano ha fatto venire meno una sponda importantissima dal punto di vista politico.

La transitoria protezione americana accordata in seguito alla sconfitta realizzata con il contributo determinante dei curdi del Rojava aveva fatto sorgere qualcosa che somigliava al modello perseguito e mai pienamente raggiunto, per le ragioni che abbiamo visto nel Kurdistan turco. Un richiamo pericoloso per Erdogan che in un colpo si è liberato dalla spina nel fianco ai confini con la Siria e ha diviso ancor più gli oppositori interni.

Complice Trump. Spettatrice l’Europa con tanto di sberleffi al loquace ma impotente Macron da parte del leader turco. Il giornale online Yeniakit, qualche giorno dopo il nostro viaggio, dandone notizia ci definisce «crociati provocatori» che supportano il terrorismo avendo girato mano nella mano per Mardin e Nusabyn con Hisyar Ozsoy vicepresidente e membro del parlamento dell’Hdp «che è un’estensione del terrorismo».

*vicesegretario del Pd