La grande manifestazione internazionale delle donne del 21 gennaio e la generosa risposta di tanti americani al blocco degli ingressi nel paese da parte di cittadini di alcuni paesi mediorientali sono segni di un risveglio democratico e civile che possono solo rincuorarci. Tuttavia, credo che sia eccessivo titolare euforicamente come fa oggi Repubblica, che «l’America si ribella a Trump».

Dopo tutto, Trump sta facendo esattamente quello per cui lo hanno votato; dubito che molti suoi elettori cambieranno idea vedendo che mantiene le promesse. Quando Barack Obama dice che le azioni del nuovo presidente mettono in pericolo i valori degli Stati uniti ha un po’ ragione e un po’ no: quella parte di America che ha consentito l’ascesa di Trump alla presidenza non si è certo liquefatta; e Donald Trump non è un mostro uscito dal nulla, ma affonda anche nelle sue azioni più estreme in una storia americana che è stata fatta di accoglienza e immigrazione ma anche di sciovinismo e xenofobia, e, soprattutto, di constante tensione fra queste due modalità.

La brutalità, rapidità e incompetenza dell’azione di Trump sono certo un salto di qualità ma non segnano affatto un’estraneità rispetto a «valori» in cui pezzi importanti di America si sono riconosciuti per secoli. Pensiamo ai movimenti nativisti che a metà ‘800 si scatenarono contro l’immigrazione irlandese (anche qui, su basi anche religiose, anticattoliche); sul Chinese Exclusion Act del 1882 contro l’immigrazione cinese; la politica delle quote negli anni ’20 che riduceva drasticamente l’ingresso da paesi ritenuti meno desiderabili ( Italia compresa), il blocco dell’immigrazione dal Giappone nel 1924, il rifiuto di accogliere le navi dei profughi ebrei nel 1939, la deportazione in campi di concentramento dei cittadini americani di origine giapponese – ma anche di qualche migliaio di italoamericani – durante la seconda guerra mondiale. E, naturalmente, la sussistenza della segregazione razziale in parti del paese fino ad anni ’60 inoltrati.

Quindi, è giusto e bello sentirci confortati dall’ondata crescente di protesta. Ma è bene tener presente, per esempio, che gli aeroporti dove si svolge la protesta si trovano soprattutto in realtà metropolitane – New York, la California – che hanno già votato massicciamente per Clinton, mentre non abbiamo notizia di analoghe manifestazioni nello spazio geografico interno compattamente trumpiano – dove invece la Women’s March ha avuto un seguito forse non oceanico ma non trascurabile (Trump ha già fatto, con meno scandalo mediatico, cose anche più nocive contro le donne di quelle che fa contro i migranti). Non dimentichiamo che negli anni più intensi dei movimenti, a cavallo fra gli anni ’50 e ’70 – gli anni dei diritti civili, delle Black Panthers, della lotta conto la guerra del Vietnam – gli Stati uniti elessero e rielessero Richard Nixon.

Un tempo da noi si diceva: piazza piene, urne vuote. Vediamo cose entusiasmanti nelle strade e nelle piazze; ma finché ci illudiamo che l’America sia tutta lì continuiamo a non vedere quello che succede nelle case, nei paesi, nelle campagne, nelle periferie di tanta parte d’America. E continueremo a fare lo stesso errore dei media e dei politologi che avevano dato per scontata la vittoria di Hillary Clinton.

Perciò la Women’s March e le proteste negli aeroporti sono solo un bellissimo inizio. Ma il lavoro da fare è più lungo, più scabroso, più difficile, più invisibile e minuto. Chissà se i nostri fratelli e sorelle che oggi manifestano negli Stati uniti avranno la pazienza e l’umiltà necessarie per ascoltare l’America che non ci piace e aiutarla a cambiare, anzi, cambiare anche noi affinché tutto il resto cambi.