Lavorano nei musei, nei siti archeologici, come guide turistiche, molti sono in formazione. Ci sono le partite Iva, in molti hanno contratti precari volatili con cooperative che lavorano conto terzi per le istituzioni culturali del Belpaese. Il sondaggio condotto dalla rete «Mi Riconosci» reso noto ieri è utile per dare un’idea della realtà lavorativa e reddituale di un precariato a metà tra il lavoro autonomo professionale spesso non riconosciuto, senza tutele universali e il lavoro subordinato sottopagato e intermittente. Nelle testimonianze raccolte si parla di redditi mensili che oscillano tra 500 e 800 euro. Questo prima che, a marzo scorso, fosse istituito il primo lockdown, quello «duro», che ha interrotto più della metà delle attività svolte da questi lavoratori sospesi in una zona grigia, per metà emersa e per l’altra metà sommersa proprio nel settore che la retorica trasversale a tutti i partiti e a tutte le ipocrisie descrive come il «petrolio d’Italia»: la «cultura».

Il vero «made in Italy» è il precariato e lo sfruttamento e, oggi possiamo dirlo, la sopravvivenza messa a rischio da un Welfare occasionale fatto di bonus e «ristori» che ha riguardato solo in parte una platea amplissima di quinto stato, di cui questa porzione di lavoratori culturali sono una piccola parte. Da quel momento è iniziato l’incubo: «Non ho percepito alcun sussidio. I musei sono chiusi e avendo un contratto di prestazione di lavoro occasionale nella (gestione del front office di un museo nel weekend non ho lavorato, punto. Nel nostro museo chi si ammala o rimane a casa per qualsiasi motivo non ha alcun tipo di sussidio» così descrive la realtà del la una precaria.

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Poi c’è il mondo delle cooperative e il racconto di come si diventa lavoratori autonomi nel mondo della «cultura»: «Come lavoratrice autonoma occasionale, vivo costantemente una condizione precaria dovuta ad un contratto privo di tutele e totalmente mal applicato rispetto alla natura dell’attività lavorativa che svolgo. Basti pensare che presto la mia collaborazione, presso la stessa realtà, da ben 10 anni ma la formula contrattuale non è mai cambiata, tanto mano la tariffa oraria. Alla tanta esperienza non corrisponde un adeguato riconoscimento. Inoltre da un paio d’anni il servizio di didattica museale è stato appaltato ad una cooperativa che ha presentato una proposta contrattuale ancor più bassa rispetto a quanto direttamente percepito con l’ente. Nessuno ha accettato, pretendendo che quanto meno fosse garantito il compenso canonico. L’unica soluzione per ovviare al contratto occasionale sembra essere la partita Iva che tuttavia risulta un vano vantaggio».

La gestione della vita, in queste condizioni, assomiglia a un patchwork: «Svolgo tre lavori: uno in nero, uno a chiamata e uno con contratto ridicolo. Solo gli ultimi due nel mondo dei musei – racconta un altro precario – Durante il primo lockdown è stato il lavoro in nero che ho continuato a fare a permettermi di andare avanti perché per gli altri due non era previsto smartworking».
Ma c’è anche il mondo dei «ristori» e dei «bonus». Ecco com’è andata a finire: «Non ne ricevuto uno perché per arrotondare le mie miserie entrate avevo un contrattino a chiamata(da non più di 250€ al mese) e questo mi ha impedito di accedere sia in primavera che in autunno ai sussidi. Prima della pandemia avevo 6 collaborazioni, ora ne ho solo 3, di cui 2 sono mansioni diverse nello stesso posto E in maniera intermittente». In questa situazione si trova la metà delle 1738 persone che hanno partecipato al sondaggio:nessun sussidio. Per chi lo ha percepito è insufficienti. La maggior parte sono donne, le più colpite