Poco meno di un mese prima dello storico vertice di Singapore, quando le minacce incrociate di Donald Trump e Kim Jong Un rischiavano di rimandare l’appuntamento con la Storia a data da destinarsi, i media indiani davano ampio risalto a un fatto quantomeno curioso se inserito nelle trame diplomatiche della comunità internazionale intorno al «problema nordcoreano».

Il 15 e 16 maggio, secondo un dispaccio diramato dall’agenzia nordcoreana Kcna il 17 maggio, il junior foreign minister VK Singh – generale dell’esercito indiano in pensione andato a rinfoltire le file del Bharatiya Janata Party di Narendra Modi – si era recato a Pyongyang per una serie di meeting con i vertici dell’establishment nordcoreano, escluso il Brillante Leader. Se nell’ultimo anno la superpotenza immaginata indiana, mentre le cancellerie di mezzo continente asiatico inseguivano freneticamente le montagne russe dei rapporti tra Corea del Nord e Stati Uniti, era rimasta sostanzialmente a guardare a distanza in silenzio, ora con un membro del governo Modi materializzatosi nei palazzi del potere di Pyongyang aveva l’occasione di raccontare – soprattutto, di raccontarsi – in termini decisamente meno passivi.
Il rilievo dato all’evento restituiva infatti un’India pronta a intervenire come mediatrice tra le parti proprio mentre la stampa internazionale lasciava intendere un rottura imminente del dialogo intessuto con cura certosina intorno alle personalità egomaniache di Trump e Kim.

L’India, spiegava la stampa «moderata» di New Delhi, nonostante abbia deciso di allinearsi alla dottrina intransigente di The Donald, era riuscita a convincere Washington della necessità di non sbarrare completamente ogni possibilità di dialogo con la dittatura nordcoreana, lasciando che «le ambasciate di alcuni Paesi amici rimangano aperte in Corea del Nord e alcuni canali di comunicazione rimangano accessibili», parafrasando una dichiarazione della ministra degli esteri Sushma Swaraj rilasciata nell’ottobre del 2017. Le cronache del vertice tra Singh e la nomenclatura nordcoreana nel maggio del 2018 sembravano dare ragione alla profezia di Swaraj, lasciando intendere che l’amico indiano, per conto di Washington, potesse farsi portavoce informale dell’amministrazione Trump senza esporla eccessivamente. Una manciata di giorni dopo, a rovinare il quadretto tessuto da una certa stampa compiacente indiana, Trump spediva l’ormai celebre «letterina» a Kim Jong Un, di fatto sabotando il meeting, per poi tornare sui suoi passi e confermare l’appuntamento del 12 giugno. Il resto è storia.

Questa ricostruzione è utile per mettere a fuoco ancora una volta il peso specifico politico che l’India di Narendra Modi, il secondo Paese più popoloso al mondo, può vantare nell’agone della comunità internazionale in circostanze di portata storica come il vertice di Singapore: un peso equivalente a zero.

New Delhi, da ben prima dell’ascesa di Modi, è probabilmente il più grande assente ai tavoli dove vengono prese decisioni di carattere globale. Quando sul piatto ci sono i grandi temi della geopolitica contemporanea – la questione della penisola coreana, l’ascesa del terrorismo transnazionale dell’Isis, la ridefinizione dei rapporti di forza nel Medioriente e nel vicino Oriente… – la voce di New Delhi latita, costringendo il Paese alle retrovie della politica internazionale. Si tratta di una posizione che Modi sta cercando di mutare a furia di strette di mani, sorrisi, abbracci e giochi di ombre proiettati in enorme scala sui muri dell’opinione pubblica indiana, seppur originati da ben più misere performance internazionali. Ma che, e Singapore ne è l’ultima conferma, New Delhi ancora non scorge nemmeno all’orizzonte.
L’unica premura del governo Modi, all’indomani di Singapore, è stata sottolineare la speranza che «la risoluzione della Penisola Coreana tenga conto e affronti le nostre preoccupazioni circa i legami della proliferazione nucleare che si estendono al vicinato indiano». Tradotto: assicuratevi che la Corea del Nord smetta di collaborare con il Pakistan in ambito nucleare.
Finché l’orizzonte della politica estera indiana sarà impallato, sempre e comunque, dallo spettro della questione pachistana, le irrealistiche ambizioni da superpotenza geopolitica di New Delhi non genereranno altro che frustrazione.