Da un lato la pandemia, dall’altra la chiara volontà del governo de facto di Jeanine Áñez di perpetuarsi al potere. E in mezzo un popolo stremato dalla quarantena, dalla repressione e da una gestione disastrosa della crisi sanitaria, con malati costretti a peregrinare tra gli ospedali nella ricerca vana di un posto letto per poi morire davanti all’entrata e morti che non possono essere seppelliti a causa del collasso dei servizi cimiteriali.

Così, se i decessi ufficiali sono poco più di 2.800, solo dal 15 al 20 luglio le forze speciali della polizia boliviana hanno recuperato nelle strade, fuori dagli ospedali, nelle automobili e nelle abitazioni di La Paz e Santa Cruz almeno 420 corpi di sospette vittime, per l’80-90% dei casi, del Covid-19.

È IN QUESTO QUADRO che il Tribunale supremo elettorale ha deciso di posticipare ancora una volta le elezioni generali, fissate – non senza lunghe e faticose negoziazioni – prima per il 3 maggio, poi per il 2 agosto, quindi per il 6 settembre e ora per il 18 ottobre.

Una decisione motivata, e in apparenza giustificata, dall’emergenza sanitaria, ma chiaramente funzionale al disegno del governo Áñez di prendere tempo, avanzando nel suo disegno di stroncare in maniera definitiva qualsiasi voce di dissenso.

Così, dopo la persecuzione ai giornalisti e la chiusura di oltre cinquanta radio comunitarie nella prima fase post-golpe, il governo ha emanato un provvedimento diretto a punire chiunque divulghi «informazioni di qualsiasi tipo che mettano a rischio la salute pubblica o che generino incertezza nella popolazione».

Senza peraltro rinunciare a tentativi – neanche troppo striscianti – di proscrivere il Mas, il Movimiento al Socialismo di Evo Morales, o di escludere dalle elezioni con le accuse più varie il suo candidato presidenziale, Luis Arce Catacora, in testa a tutti i sondaggi.

La misura, tuttavia, è davvero colma. Alla notizia dell’ennesimo rinvio, le organizzazioni sociali che costituiscono la base del Mas sono scese in strada martedì, sfidando la quarantena, «per la vita, la salute, l’educazione, il lavoro e la democrazia».

Con un chiaro messaggio al governo de facto: «Basta utilizzare la pandemia per restare al potere e calpestare i diritti del popolo, giocando con la salute e la vita della popolazione». Perché il problema del paese, ha spiegato il segretario esecutivo della Centrale operaia boliviana Juan Carlos Huarachi, «non è il coronavirus, ma è questo governo incapace di affrontare l’emergenza», come dimostrato, tra l’altro, dallo scandalo dell’acquisto di 17 respiratori di fabbricazione spagnola a un costo quasi quattro volte più alto del dovuto.

TUTTO INDICA, però, che non finirà qui. «Concediamo 72 ore di tempo al Tribunale supremo elettorale perché faccia marcia indietro e confermi la data del 6 settembre», ha dichiarato Huarachi, minacciando in caso contrario uno sciopero generale a tempo indeterminato, con l’avvio di blocchi stradali in tutti i dipartimenti del paese dal 3 agosto. (c.f)