Guardando ai fatti verrebbe da dire «nulla di nuovo sul fronte orientale», perché l’ultima dichiarazione pubblica sull’Ucraina Vladimir Putin l’ha rilasciata il 23 di dicembre e da allora non sono stati segnalati nuovi movimenti di truppe lungo il confine meridionale, anzi, a fine anno lo stato maggiore della Difesa ha ridotto leggermente il numero di uomini sul campo, rendendo ancora più labile l’ipotesi già discutibile di una campagna militare.

EPPURE NEGLI ULTIMI GIORNI gli Stati Uniti hanno alzato e tanto il tenore delle loro azioni, come se i russi fossero davvero sul punto di invadere. Lunedì, in poche ore, hanno prima deciso il ritiro del personale diplomatico non essenziale da Kiev assieme a Gran Bretagna, Australia e Germania, sollevando sorpresa e qualche protesta negli stessi ranghi del governo ucraino, secondo i quali «gli americani sono più al sicuro qui da noi che a Los Angeles», e hanno poi lasciato intendere di essere pronti a inviare altri 8.500 uomini in Europa dell’Est, così ha scritto ieri il New York Times, in particolare sulla costa del Baltico, un nodo strategico per la sicurezza della Russia. «Siamo impegnati nel dialogo, ma stiamo comunque migliorando i nostri strumenti difesa e deterrenza: quest’anno forniremo all’Ucraina ancora più assistenza militare di quanto sia accaduto sinora», ha detto ieri il segretario di stato americano, Antony Blinken, parlando con la stampa. Se le misure adottate a Washington sono più concrete rispetto alla minaccia, è lecito pensare che il capo della Casa Bianca, Joe Biden, abbia virato su un approccio aggressivo e intenda adesso spingere Putin a scegliere fra due diverse possibilità. La prima è quella di un intervento in Ucraina. L’altra è il progressivo ritiro delle truppe concentrate a sud, ma pur sempre in territorio russo. Ciascuna delle opzioni, come si comprende, comporta per Putin una serie di rischi personali, in particolare sul piano della credibilità interna. È un enigma simile a quello che i leader sovietici hanno affrontato con la corsa agli armamenti. Per la Nato significa riemergere dopo la catastrofe in Afghanistan.

MA SUI PROGETTI DI INVASIONE sono gli stessi ucraini per ora a dubitare. Così il presidente, Volodymyr Zelensky, ha invitato ieri i cittadini alla calma di fronte ai rapporti allarmanti della stampa straniera. Ha fatto lo stesso in altre due circostanze nel giro di un mese. Il suo ministro della Difesa, Oleksii Reznikov, ha aggiunto in una intervista trasmessa in prima serata che «le forze armate russe non hanno creato unità di attacco tali da fare ritenere imminente un’offensiva», e che quindi «la minaccia non esiste», almeno al momento, nonostante «lo scenario resti pericoloso». Anche il Centro per le Strategie della Difesa dell’Ucraina, legato al governo, ha pubblicato un lungo rapporto in cui non solo l’idea di un’operazione su larga scala, ma anche quella dell’assedio di città isolate, è definita «non probabile». Secondo il documento i russi hanno 127.000 uomini lungo il confine. Una parte si trova in Crimea ed è impegnata proprio in questi giorni in una verifica di prontezza al combattimento con esercitazioni sui mezzi corazzati. Il numero di soldati è lo stesso dallo scorso aprile. Ancora non si vedono né i gruppi tattici necessari, né le unità di riserva. Non ci sono le linee di rifornimento. Non si è ancora passati alla cosiddetta «amministrazione di guerra». Servono almeno due o tre settimane per costruire la struttura, e tutti gli indicatori esaminati hanno spinto il centro di ricerca a scartare l’ipotesi invasione per tutto il 2022. Più probabile è ritenuta l’eventualità di «iniziative ibride»: anche ieri le autorità hanno fatto sapere di avere «sventato un attacco» arrestando un «gruppo criminale legato alla Russia» che avrebbe pianificato attacchi contro «obiettivi sensibili», i cui contorni restano, però, oscuri.

AL FRONTE DEL DONBASS, lungo il quale sono morte più di tredicimila persone in sette anni di guerra civile, da giorni non si registrano scontri. L’intera crisi riguarda la condizione delle province ribelli di Donetsk e di Lugansk: doveva essere risolta attraverso gli accordi di Minsk stipulati da Ucraina, Russia, Francia e Germania. Oggi quell’intesa, da riprendere, sembra dimenticata. La vicenda ha assunto una dimensione così vasta e pericolosa che ormai ha poco a che fare con il confine conteso.