Avevo trascorso dodici giorni in carcere, di cui gli ultimi nove in isolamento, quando venni a sapere che l’avvocato che mi avrebbe rappresentato era un uomo di nome Taner Kılıç. Mi sentii immediatamente sollevato. Ero sollevato non solo perché Taner è un ottimo avvocato e il presidente di Amnesty International in Turchia ma anche perché è mio complice e compagno di lotte da molti anni.

Ero stato arrestato dalla polizia in borghese vicino al confine siriano. La polizia mi aveva accusato di essere entrato senza permesso in una zona militare vicino alla città di Reyhanlı, nella provincia di Hatay. Avevo paura che potessero tenermi in carcere per mesi, forse anche anni. Due giorni dopo che Taner ha cominciato a rappresentarmi, però, le porte della mia cella si sono aperte e sono stato rilasciato.

Il giorno dopo ero in volo verso Bologna, estremamente sollevato dal fatto che la mia traversia avesse avuto breve durata. Cinque settimane dopo, Taner, che aveva smosso mari e monti per ottenere la mia liberazione, è stato arrestato a sua volta. Alle 6.30 della mattina del 6 giugno la polizia si è presentata a casa sua e se l’è portato via.

Tre giorni dopo, è stato accusato di «adesione all’organizzazione terroristica di Fethullah Gülen» (FETÖ) ed è stato messo in custodia preventiva presso il carcere di Sakran, vicino a Izmir, dove si trova da allora. È stato accusato di «adesione a un’organizzazione terroristica». Se giudicato colpevole, potrebbe dover scontare fino a 15 anni di carcere. Trovo estremamente allarmante anche il solo pensiero di questa eventualità.

Ho incontrato Taner per la prima volta nel 2006. Era una fredda giornata di dicembre e io ero sbarcato a Izmir alla fine del mio lungo viaggio attraverso il Mediterraneo, da cui poi sarebbe nato il mio primo libro «Mamadou va a morire». Ci incontrammo in uno degli affollati bar della città. Ero andato lì proprio per cercare di incontrarlo.

Taner, infatti, rappresentava i superstiti dell’affondamento di un gommone in acque turche da parte della guardia costiera greca durante un respingimento illegale verificatosi tre mesi prima.

Si trattava di una vicenda terribile, finita con la morte di nove passeggeri che erano annegati a pochi metri dalla riva. Una storia su cui le autorità greche e turche avrebbero preferito che calasse il silenzio, se non fosse stato per la persistenza di Taner e di due donne straordinarie che hanno lavorato al caso ma di cui ora evito di fare il nome, vista la situazione corrente.

Secondo le autorità, l’accusa principale che rappresenta il presunto collegamento fra Taner Kılıç e il movimento di Gülen è il fatto che nell’agosto 2014 è stata scaricata sul suo telefono ByLock, un’applicazione di messaggeria mobile sicura che le autorità ritengono sia stata usata per comunicare dal movimento di Gülen.

Non è stata presentata alcuna prova credibile a supporto dell’«adesione a FETÖ» di Taner. Taner Kılıç nega di aver mai scaricato o usato ByLock, o perfino di averne mai sentito parlare fino a quando il suo presunto uso è stato ampiamente pubblicizzato in relazione ai recenti arresti e procedimenti penali.

Due esami forensi indipendenti commissionati da Amnesty International ed eseguiti sul suo telefono non hanno individuato alcuna traccia del fatto che ByLock sia mai stata scaricata. Lo scorso mese, il governo turco ha riconosciuto che oltre 11.400 persone accusate di aver usato ByLock non hanno mai effettivamente scaricato quest’app sui propri telefoni e ha cominciato a rilasciare quanti erano stati arrestati. Taner non rientra nell’elenco dei rilasciati ma i rilasci stessi riconoscono de facto che sono stati commessi errori.

Oggi, dopo quasi otto mesi di carcere, riprende il processo a Taner. La sua detenzione è una triste conferma del fatto che Taner non è mai sceso a compromessi. Inoltre, è anche la triste conferma della sempre più pericolosa e ridicola deriva in cui sta scivolando un paese straordinario come la Turchia.

Esprimo tutta la mia solidarietà a Taner e aggiungo la mia voce al coro di quanti richiedono la sua liberazione e la liberazione di tutti i giornalisti, gli avvocati, gli accademici, gli attivisti, i deputati e in generale di tutti gli esponenti dell’opposizione turca che, durante lo scorso anno, sono stati imprigionati a migliaia con accuse preconfezionate di terrorismo.