Il giorno della toma de Lima, la presa della capitale, è arrivato. Un fiume di gente si è riversato nelle sue strade, prendendo parte allo sciopero convocato dalla Confederación General de Trabajadores del Perú (Cgtp) in appoggio alla Marcha de los cuatro suyos (nel momento in cui scriviamo la marcia vera e propria, che attraverserà le vie del centro, deve ancora partire).
È un fiume di todas las sangres, secondo l’espressione resa celebre da José María Arguedas, in riferimento alla grande diversità etnica, culturale, geografica del popolo peruviano.

CI SONO, PROVENIENTI dai quattro angoli del paese, i rappresentanti delle comunità quechua e aymara, i contadini, gli operai, le donne dei mercati popolari, i minatori, i piccoli commercianti, i dirigenti sociali, gli insegnanti, gli studenti (a cominciare da quelli della Federación Universitaria de San Marcos, che hanno aperto le porte dell’ateneo ai manifestanti). Hanno viaggiato spesso per giorni e, malgrado molte volte la polizia e l’esercito abbiano tentato di fermarli, sono sempre andati avanti, ricevendo un appoggio spontaneo da parte di ogni villaggio attraversato e poi della gente dei quartieri popolari di Lima che è andata loro incontro.

Non si tratta, come ha dichiarato a Prensa Latina l’analista politico Héctor Béjar, ministro degli Esteri di Castillo per soli 18 giorni, di un movimento «di sinistra», bensì di un processo «popolare, di base, molto più ampio della sinistra politica», benché «la maggior parte dei militanti delle distinte sinistre esistenti in Perù» ne facciano parte.

È, INSOMMA, UN MOVIMENTO variegato, che non ha leader e non si richiama ai partiti, e che deve molto, come spiega il ricercatore dell’Instituto de Estudios Políticos Andinos José Manuel Mejía, al lavoro organizzativo della Central Única Nacional de Rondas Campesinas, le organizzazioni contadine di base che erano nate negli anni ’70 per difendere la popolazione dal crimine organizzato e dalla violenza della Guerra tra lo stato e Sendero Luminoso, ma che oggi proteggono il territorio dall’avanzata della frontiera estrattivista nelle Ande peruviane.

Ma è soprattutto, evidenzia Mejía, una grande manifestazione di forza del Perù profondo, rurale, indigeno, contadino, povero e discriminato: ninguneado, come direbbe Galeano. E se proprio per questo si identifica con Castillo – vittima di una persecuzione implacabile da parte dell’oligarchia – e ne chiede la liberazione, non ha tuttavia intrapreso questa lotta per restituirgli la presidenza, bensì per rifondare il paese.

È questo l’obiettivo ultimo della toma de Lima e delle proteste, a tempo indeterminato, che proseguono parallelamente un po’ in tutto il paese – oltre 110 i blocchi stradali in corso almeno in nove regioni – e che registrano due nuove vittime: una donna un uomo, entrambi ronderos, uccisi da colpi di arma da fuoco a Puno.

C’È PREOCCUPAZIONE anche per quanto potrà accadere nella capitale, come evidenzia il segretario generale della Cgtp Gerónimo López, il quale ha invitato la Defensoría del Pueblo ad accompagnare la marcia per vigilare sulla possibile repressione e sull’infiltrazione da parte della polizia di elementi incaricati di generare il caos. E ha rivolto un appello alla Corte interamericana per i diritti umani ad avviare le indagini sui responsabili delle violenze, a cominciare da Dina Boluarte e dai vertici della polizia nazionale. Ma lei, la presidente che il 71% dei peruviani disapprova, insiste che, con le armi da fuoco e le munizioni che hanno ucciso più di 40 concittadini, polizia ed esercito non c’entrano nulla.