Nella versione classica del mito, Prometeo non prova alcun rimorso per avere trafugato il fuoco agli dei, e se alla fin fine si salva è perché il signore dell’Olimpo ha bisogno di lui. Solo nel XXII secolo dell’era volgare, il poeta bizantino Ioánnes Tzétzes gli attribuisce una nipote, Metamelia – ovvero la «prudenza postuma» – che incarna, per lui, il pentimento. Goethe preferirà chiamare questa fanciulla Epimeleia, cioè «cura di sé», ma quasi a negare ogni possibilità di riscatto, le riserverà una inclinazione al suicidio. E nella lettura romantica, anche il figlio di Prometeo – Phileros, l’«amico dell’amore» – tenterà di darsi la morte. Almeno una fra le attualizzazioni più prossima a noi del mito vede in campo un cinismo prima sconosciuto. Cominciamo da lontano.

I precedenti
Il fisico ungherese Leo Szilard era stato tra i primi – intorno al 1933 – a concepire la possibilità di una reazione atomica «a catena»: il 16 luglio del 1939 andò di persona a trovare Einstein, per scrivere insieme a lui una lettera al presidente Roosevelt, che perorava l’avvio urgente di un progetto di costruzione di armi atomiche, prima che ci arrivasse la Germania nazista. Nacque da qui il famoso «progetto Manhattan». Dopo sei anni esatti, il 17 luglio del 1945, Szilard fu il promotore di un’altra petizione al presidente degli Stati Uniti, firmata da settanta scienziati che avevano partecipato al progetto, per chiedere che la bomba (ormai pronta) non fosse utilizzata. Tre settimane dopo, la città di Hiroshima fu distrutta. Nel 1946, Einstein assunse la presidenza del Comitato di Emergenza degli scienziati atomici, preoccupati per la minaccia che le nuove armi arrecavano all’umanità; dieci anni più tardi, in punto di morte, avrebbe firmato il cosiddetto «Manifesto Russell-Einstein», che ha ispirato ogni successiva iniziativa per la pace e il disarmo.

Tra i protagonisti del progetto Manhattan, e tra i più convinti sostenitori della costruzione e dell’uso di armi atomiche, c’era un altro ungherese: John von Neumann, all’anagrafe János Lajos, naturalizzato cittadino americano nel 1937. Era un uomo geniale, dotato di una delle menti più acute e fertili del XX secolo, in grado di dare contributi d’eccezione anche in campi scientifici distanti tra loro: i fondamenti della matematica, la meccanica quantistica, la balistica, le condizioni d’innesco delle reazioni atomiche, i fondamenti del calcolo, la struttura dei calcolatori elettronici, l’analisi formale dei conflitti, la strategia militare, le simulazioni algoritmiche, la modellistica, le reti informatiche, le nanotecnologie, la teoria degli automi (e delle macchine in grado di riprodursi), la teoria della mente. Apparteneva a quel gruppo di scienziati ungheresi di origine ebrea che furono chiamati «marziani», per il loro talento eccezionale, al limite del titanico.

A raccontare ora le imprese di von Neumann, in una biografia accuratissima, è un membro del London Institute for Mathematical Sciences, Ananyo Bhattacharya in L’uomo venuto dal futuro La vita visionaria di John von Neumann (Adelphi, pp. 447, € 30,00). Nel concepire e realizzare questo libro, l’autore ne ha – in realtà – scritti più d’uno: almeno sei dei capitoli che compongono la sua biografia costituiscono un resoconto accurato di altrettanti percorsi della scienza del Novecento, ai quali von Neumann ha dato un contributo specifico. I rinvii puntuali, e l’apparato bibliografico del libro, forniscono percorsi di ricerca scrupolosi, per chi intenda andare oltre, e esemplari, sotto questo profilo, sono le pagine dedicate alla «macchine per costruire macchine» e alle «macchine per costruire menti», dove si affrontano anche alcuni problemi molto dibattuti al giorno d’oggi, circa il rapporto tra i modelli formali, le macchine e le menti.

Dalla fisica all’economia
Come Giorgio Israel e Ana Millán Gasca hanno chiarito qualche anno fa, in un’analoga monografia su von Neumann, il fatto che il mondo possa essere pensato come un «gioco» matematico non implicava affatto, per lui, che il mondo fosse tale: lo scrisse esplicitamente, nel 1956: «Non solo per amor di discussione, ma anche perché ci credo davvero, difenderò la tesi che il metodo è innanzitutto opportunistico; e anche che, al di fuori delle scienze, pochi si rendono conto di quanto sia assolutamente opportunistico». L’unica giustificazione per i modelli prodotti dalla scienza starebbe allora nel fatto che «ci si aspetta che funzionino, cioè che descrivano correttamente i fenomeni, in un’area ragionevolmente ampia».

Questo uomo, così lucido e profondo, aveva partecipato dal 1940 al laboratorio di ricerca balistica dell’esercito degli Stati Uniti e divenne presto un esperto nel calcolare il modo in cui la forma di una carica esplosiva determina la forza e la direzione dell’esplosione. Nel luglio del 1943, Robert Oppenheimer lo invitò ad aggregarsi al progetto Manhattan, perché contribuisse a chiarire come disporre le cariche d’innesco di una bomba atomica, in modo che il «materiale fissile» fosse in grado di raggiungere una «massa critica» necessaria a produrre la reazione a catena.

Von Neumann calcolò poi la quota ottimale per l’esplosione della bomba, in modo da massimizzare i suoi effetti distruttivi. E dette il suo parere favorevole, perché Hiroshima e Nagasaki fossero scelte come obiettivo. Alla fine della guerra, continuò ad adoperarsi per la costruzione di una bomba termonucleare e fu tra coloro che caldeggiarono un attacco preventivo all’Unione Sovietica, prima che i sovietici fossero in grado di rispondere.

Negli anni successivi, fu assunto come consulente alla Rand Corporation, il più noto centro di studi strategici per la «guerra fredda», che divenne presto la sede di «giochi» militari di simulazione, basati su due pilastri del contributo scientifico di von Neumann: la teoria (e la pratica) della computazione, e la «teoria dei giochi». Su questi stessi pilastri – a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso – una nuova generazione di studiosi andò costruendo modelli e teorie liberiste in campo economico, premiate poi con più di un Nobel.

La scommessa su Dio
Nell’estate del 1946, von Neumann, ormai un campione del pensiero conservatore più aggressivo, venne invitato ad assistere all’operazione Crossroads, nell’atollo Bikini, per il controllo degli effetti di un’esplosione nucleare su un’intera flotta. Nove anni più tardi, gli fu diagnosticato un cancro alle ossa, probabilmente l’esito delle radiazioni che lui stesso aveva contribuito a scatenare, partecipando alla progettazione e alla costruzione di armi mostruose.

In prossimità della morte, si avvicinò a quella fede che da sempre aveva ignorato. Stando ai resoconti della figlia, non fu il pentimento a determinare la svolta, non la consapevolezza di avere ragionato con totale distacco sulla eventualità che venissero uccise milioni di persone, semmai fu il risultato di un calcolo. Come già per Blaise Pascal, era opportuno per von Neumann scommettere sull’esistenza di Dio: perché «se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla».