Si è svolta domenica scorsa a San Salvador la cerimonia di «beatificazione» del gesuita Rutilio Grande, primo sacerdote ucciso in El Salvador nel marzo del 1977 dalla Guardia Nacional su ordine dei latifondisti che lo additavano come «un comunista dalla parte dei campesinos». Con lui nell’agguato consumatosi nella zona rurale di Aguilares perirono trivellati di colpi nella stessa auto un anziano contadino e un quindicenne. Anch’essi sono stati dichiarati «beati»; insieme al missionario francescano di origine italiana Cosma Pessotto, ammazzato in una chiesa più tardi nel giugno ’80, a guerra civile già iniziata.

ALLA FUNZIONE, presieduta dal cardinale salvadoregno Rosa Chavez, non ha assistito il giovane presidente Najib Bukele che giusto una settimana prima aveva provocatoriamente cancellato la commemorazione per i trent’anni dagli accordi di pace che misero fine a quel cruento conflitto fra regime civico-militare e guerriglia. Bukele ha preferito partire per Ankara, dove sottoscriverà un inedito accordo commerciale col suo omologo turco Erdogan.
Fu un pesante tributo di sangue quello pagato negli anni ’70 e ’80 da quella parte di chiesa salvadoregna in odore di Teología de la Liberación: 20 sacerdoti (fra cui i sei gesuiti dell’Università Centroamericana), quattro monache e centinaia di catechisti di un popolo eminentemente cattolico.

Fino al sacrificio dell’arcivescovo di San Salvador Oscar Romero il 24 marzo 1980 mentre diceva messa. Sì, proprio lui che era stato proposto in Vaticano come metropolita dai suoi colleghi vescovi reazionari per essere egli stesso un conservatore; a perpetuare il secolare schema coloniale di una oligarchia con i suoi due bracci operativi, militare ed ecclesiastico.

MA IL TORMENTATO e scorbutico monsignor Romero aveva paradossalmente allora come unico amico (nonché confessore) il padre Rutilio Grande, che aveva scelto come «cerimoniere» per il suo insediamento alla massima carica religiosa. È l’assassinio di Rutilio, neanche un mese dopo, a spalancargli definitivamente gli occhi sulla realtà della repressione nel suo paese, convertendolo nella «voce dei senza voce» per una riconciliazione nazionale fondata sulla giustizia sociale.

Da quel momento Romero ha avuto violentemente contro la destra, l’esercito e tutto l’episcopato locale (tranne monsignor Arturo Rivera y Damas).

A ROMA INVECE papa Paolo VI lo ricevette incoraggiandolo. I problemi gli si complicarono anche in Vaticano dall’ottobre ’78 con l’avvento al pontificato di Karol Woytjla e il suo piano di azzeramento della sovversiva opción preferencial por los pobres latinoamericana (che spazzò via nell’arco di qualche anno). La curia romana cominciò a giocare apertamente contro il primate salvadoregno fino a chiederne l’esautoramento con l’invio di un amministratore apostolico. Giovanni Paolo II non avallò quel provvedimento. Ma nel maggio ’79 quando ricevette Romero per la prima volta nella Santa Sede lo rimproverò severamente: «Devi dialogare con il governo» gli disse. E Romero: «Ma Santo Padre, ammazzano la nostra gente…».

Quella di Woytjla fu una vera e propria delegittimazione che isolò del tutto Monseñor nel suo paese. Fino al suo ammazzamento (dopo appena tre anni passati da arcivescovo) orchestrato dal fondatore della destra di Arena, nonché degli squadroni della morte, l’ex maggiore Roberto D’Aubuisson. Anche i suoi funerali furono “profanati” con l’uccisione di decine di fedeli nella piazza della cattedrale.

È all’indomani di quel magnicidio che, di fatto, in El Salvador si scatenò il conflitto civile che si sarebbe prolungato per dodici lunghi anni.

NEL MARZO 1983 nel suo primo viaggio in Centroamerica (che seguimmo sul posto su queste pagine) il papa polacco, violando ogni protocollo, volle andare a pregare sulla sua tomba. Forse in segno di riparazione. Di certo per la preoccupazione che la figura di monsignor Romero non fosse scippata dalla sinistra politica. «Monsignor Romero è nostro, è della Chiesa», ebbe a ripetere più volte negli anni successivi.

Sta di fatto che il processo di canonizzazione di Oscar Romero, che prese il via solo nel 1994 per iniziativa del suo successore Rivera y Damas, quando arrivò a Roma rimase chiuso nel cassetto per tutto il resto del papato di Woytjla, così come del suo successore Joseph Ratzinger.

 

San Salvador, murale con Rutilio Grande e monsignor Romero (Ap)

 

C’è voluto l’avvento del primo papa latinoamericano (nonché gesuita) per sdoganare quella pratica. Appena un mese dopo la sua elezione papa Francesco, fra le sue priorità, diede disposizione al postulatore vaticano che riprendesse in mano quel dossier in un vero e proprio atto di risarcimento nei confronti del prelato salvadoregno. Beatificato a San Salvador due anni dopo (nel maggio 2015) monsignor Romero veniva dichiarato «Santo» a Roma dallo stesso Bergoglio nell’ottobre 2018; guarda caso insieme a papa Paolo VI, l’unico che l’aveva sostenuto.

MA NON POTEVA FINIRE LÌ. Per completare l’opera di riparazione anche padre Rutilio Grande, l’ispiratore di colui che poi divenne San Romero de America, è stato dichiarato a tempo di record beato «in odio alla fede», cioè a dire da cattolico martirizzato per mano di stessi cattolici.
Bene ha sintetizzato recentemente il gesuita Martin Maier (attuale direttore in Germania di Adveniat-America Latina) affermando che «la canonizzazione di monsignor Romero costituisce il paradigma del pontificato di papa Francesco» nel suo intento di riscattare il Concilio Vaticano II.

Errata Corrige

La beatificazione in Salvador di Rutilio Grande, primo sacerdote ucciso su ordine dei latifondisti perché «comunista amico dei campesinos»,  completa l’opera di riparazione di avviata da papa Bergoglio