All’inizio di ottobre un agricoltore è stato ucciso da due ladri a Paul Roux, villaggio sudafricano della provincia del Free State. Brendin Horner, 21enne, è stato legato a un palo, picchiato e accoltellato. Per quanto l’omicidio sia stato efferato, si tratterebbe di uno dei tanti, in un Paese che ne conta circa 20mila l’anno, il quinto tasso più alto al mondo.

MA, MOLTO SEMPLICEMENTE, Horner era bianco e i suoi assalitori sono neri. Perfino noioso a raccontarsi, tanto è bastato a scatenare le ennesime tensioni razziali che si ripetono ciclicamente dalla fine dell’apartheid, avvenuta ormai ventisei anni fa. Ma non c’è traccia di un movente razziale per questo assassinio, che pare invece legato al furto di bestiame.

Il 6 ottobre centinaia di agricoltori bianchi hanno assediato il tribunale della città di Senekal, dove si teneva la prima udienza del processo a carico dei due ladri, con l’intenzione di linciarli. In occasione di una seconda udienza, il 16 ottobre, hanno sfiorato lo scontro con i manifestanti neri dell’Economic Freedom Fighters (Eff), il partito panafricanista di sinistra, che si sono presentati in massa «per proteggere la democrazia e la Costituzione dalla scia di violenza».

L’Eff ha respinto la narrazione di alcuni gruppi di agricoltori bianchi che ritengono di essere vittime di un genocidio in corso. «Siamo qui per lottare e morire contro l’apartheid, perché in Sudafrica non è mai finito», ha dichiarato Julius Malema, leader dell’Eff, fomentando i suoi. Lo stesso giorno, dell’apartheid i suoi oppositori cantavano l’inno.

 

La preghiera di un agricoltore mentre in aula si svolge la seconda udienza del processo (Ap)

 

 

Il presidio dei militanti dell’Economic Freedom Fighters davanti al tribunale di Senekal (Ap)

 

 

Una brevissima ricerca web sulle associazioni sudafricane ne mostra molte divise tra gruppi di bianchi e neri. Tra gli altri, AfriForum difende gli interessi degli afrikaner, i discendenti dei coloni europei (prevalentemente olandesi), e non serve spiegare chi tutela la Black Farmers Association.

PROPRIO AFRIFORUM è tra i principali promotori dell’idea che i bianchi siano un preciso target di violenze, che avverrebbero per costringere i bianchi a lasciare le terre, che posseggono per il 70% nel Paese, per favorirne la redistribuzione da parte del governo ai neri, che ne hanno solo il 5%. La popolazione bianca però rappresenta appena il 9% dei 58 milioni di sudafricani.

Inoltre, secondo le statistiche della polizia, lo scorso anno ci sono stati 49 omicidi di agricoltori bianchi, molto meno dell’1% del totale nazionale.

Eppure, la retorica del genocidio trova da tempo alleati oltreoceano. Il 2018 è stato particolarmente prospero in questo senso. Nel marzo di quell’anno, Peter Dutton, ministro dell’Interno australiano, proponeva di rilasciare dei visti umanitari in tempi rapidi agli agricoltori bianchi sudafricani «vittime di persecuzione» e bisognosi dell’aiuto di un «Paese civilizzato».

A rincarare la dose, pochi mesi dopo, è stato Donald Trump. In seguito all’ospitata tv del numero due di AfriForum su Fox News, il presidente statunitense dichiarava di aver chiesto al segretario di Stato Mike Pompeo «di studiare la situazione degli agricoltori bianchi sudafricani che vengono uccisi in massa e subiscono l’esproprio delle terre».

TRUMP E DUTTON NON SAPEVANO alcune cose. Anche ipotizzando il più alto tasso possibile di omidici nelle fattorie, che sarebbe di 133 persone su 100mila abitanti, come riportato in una seduta del parlamento sudafricano, e che includerebbe vittime sia nere che bianche, il numero di agricoltori bianchi colpiti si troverebbe sempre dopo la virgola dello 0%, e tale era anche tra il 2016 e il 2018.
Secondo l’Istituto sudafricano per gli studi sulla sicurezza, il più autorevole del Paese riguardo le statistiche sul crimine, i neri sono vittime di omicidi molto più dei bianchi, in ogni contesto. Inoltre, la storica volontà del governo post-apartheid di Mandela del 1994, di redistribuire almeno il 30% delle terre ai neri, da allora si è realizzata solo per l’8%.

Di Trump non serve dire molto. Se servisse di Dutton: potrebbe aver ereditato l’anima più antica del suo Paese, quella che ha ispirato l’apartheid con l’Aboriginal Act (1897) dello stato del Queensland. L’eco dato da entrambi alla «narrazione bianca», ancora oggi, da Senekal al globo può fare passi brevi.

 

Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa (Ap)

 

«Sarebbe ingenuo affermare che le relazioni etniche nelle comunità agricole siano state armoniose sin dall’avvento della democrazia, ma questi non sono atti di genocidio, bensì di criminalità e vanno trattati come tali», ha dichiarato il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa in merito all’omicidio di Horner, invitando ad allentare le tensioni crescenti.

SE DA UN LATO LA RICERCA di consensi internazionali da parte di AfriForum (e non solo) porta all’attenzione l’enorme problema della violenza nel Paese, dall’altro, non ha che contribuito a trovare scappatoie oltreconfine. Nello scorso decennio migliaia di agricoltori afrikaner sono emigrati a più riprese, attirando le simpatie, oltre che di Usa e Australia, di Canada, Congo, Zimbabwe e Zambia, che ne hanno incentivato l’immigrazione con finalità di sviluppo rurale.

Secondo le parole di Khanyi Magubane, giornalista sudafricana e commentatrice politica, riportate dal New York Times, «gli agricoltori bianchi non vedono il quadro completo di una situazione disfunzionale in cui tutti sono un bersaglio, tutti vengono derubati».