È uno dei film, e dei romanzi, che hanno insegnato a generazioni di americani, e non solo a loro, il peso che l’eredità dello schiavismo e della segregazione razziale hanno avuto nella storia del Paese. Il buio oltre la siepe, il libro di Harper Lee è del 1960, la sua fortunata versione cinematografica, interpretata tra gli altri da Gregory Peck, solo di due anni più tardi, arrivava a quasi un secolo dalla fine della Guerra di secessione, ma mentre il movimento per i diritti civili degli afroamericani lottava ancora perché fossero realizzati alcuni degli obiettivi per i quali era stata combattuta.

Una scena del film Il buio oltre la siepe

NELLA STORIA, all’opposto della figura dell’avvocato Atticus Finch che si batte perché sia riconosciuta l’innocenza di un nero accusato dello stupro di una ragazza bianca, si situa quella del padre della giovane, Bob Ewell, un miserabile razzista che alleva una progenie sudicia in una «ex capanna da negro» accanto alla discarica cittadina. «Nessun ispettore scolastico poteva mandare la loro numerosa prole a scuola; nessun ispettore sanitario poteva liberarli dai difetti congeniti, i vari vermi e malattie indigene al loro ambiente lurido», sottolineava la scrittrice dell’Alabama. Gli Ewell erano «rifiuti umani», appartenevano a quella fascia della popolazione destinata a non veder modificata in alcun modo la propria condizione, a prescindere da qualunque contingenza economica e sociale. Erano ciò che la gente del Sud chiama «spazzatura bianca: white trash».

Docente di storia americana alla Louisiana State University di Baton Rouge, Nancy Isenberg cita questo caposaldo della cultura popolare statunitense a riprova di come l’esistenza stessa delle classi sociali sia stata in qualche modo rimossa dal racconto collettivo del Paese. E solo in alcuni casi sostituita da una lettura all’insegna di un generica quanto talvolta fuorviante lente «identitaria». Il suo White trash (minimum fax, pp. 556, euro 22, traduzione di Pietro Cecioni), analizza meticolosamente come accanto al tema della razza quello della classe sia stato invece uno dei pilastri sul quale si è edificato fin dall’inizio il destino del «grande Paese».

Da studiosa dell’America post-coloniale, ha scritto di figure quali Madison e Jefferson ma anche del ruolo del genere nel definirsi della nuova cittadinanza nazionale, Isenberg muove dalla constatazione che così come gli schiavi deportati dall’Africa anche i poveri e i derelitti bianchi, i servi a contratto e la manodopera senza diritti, spesso anche bambini, abbiano portato via mare accanto ai Padri Pellegrini la propria condizione di esclusi nel Nuovo mondo direttamente dalle strade di Londra o Manchester.

In una realtà che si andava definendo sostituendo all’aristocrazia del sangue e del lignaggio europea quella locale della «proprietà», un pezzo di terra, una casa, un certo numero di schiavi, la «spazzatura bianca», arrivata e rimasta priva di tutto, perpetuerà di generazione in generazione questo stato di esclusione, intrecciato con lo stigma sociale che fa degli ultimi dei reietti, i primi responsabili dello stato miserabile in cui conducono la propria esistenza. Nella «città sulla collina» dove si stava inventando una nuova società non ci sarebbe stato posto né per le classi né per i poveri.

Una storia che lungo un arco temporale che lega i ragazzini sbarcati a Boston provenienti dagli slum fumosi delle città inglesi agli squatter senza terra lanciati alla conquista del West fino ai workcampers che vivono in città di roulotte non censite su alcuna mappa, fissa i contorni di ciò che la studiosa definisce come «la storia segreta delle classi sociali in America».

QUANTO AL PERCORSO seguito da Isenberg per far emergere le tracce di questa presenza negata, intreccia volutamente la storia sociale e i segnali lasciati dal suo rimosso nelle rappresentazioni della cultura popolare.

Dal mito di Pocahontas alla presidenza di Trump – il libro uscì negli Usa nel pieno della campagna elettorale del 2016 e non a caso l’autrice ha aggiunto una prefazione che riflette su quanto delle sue analisi avesse trovato posto nell’esito di quel voto dominato dall’appello «ai poveri bianchi dimenticati» – il racconto si snoda attraverso figure e simboli che evocano una sorta di saga delle classi inferiori: da Benjamin Franklin a Sarah Palin, passando, tra gli altri, per Davy Crockett, Erskine Caldwell e Elvis Presley.

Un lungo elenco di vicende e vite denigrate – lubbers, bogtrotters, squatter, crackers, mangia argilla, negri bianchi, hillbilly, redneck e white trash alcuni degli insulti ricorrenti – che indicano come la storia dei bianchi poveri sia ancora tutta da scrivere. E come la classe, accanto alla razza, sia ancora l’ostacolo più consistente sulla strada della realizzazione di quel sogno americano da sempre promesso ma che solo per alcuni si è fino ad ora realizzato.