Almeno per due ragioni il 2022 è stato un anno importante per i piccoli comuni situati nelle aree interne del nostro paese. La prima è che con le risorse del Pnrr il Ministero della cultura, attraverso il bando «Borghi» ha distribuito con due «linee di azione», poco più di 760 milioni a 310 comuni, quasi per la metà situati al sud. Se discutibili sono stati i criteri e il modo con i quali le risorse sono state assegnate, altrettanto si può dire sull’entità delle somme che sono state erogate e che non hanno potuto certo soddisfare le circa milleottocento domande inviate al Mic.
La seconda ragione rilevante sta nella pubblicazione di alcuni saggi che dimostrano la necessità di alimentare la riflessione critica sul tema del destino delle aree interne, rispetto alla quale ancora non corrisponde un’azione politica adeguata come dimostra anche il nuovo governo che con la legge di Bilancio innalza il limite minimo per garantire l’autonomia dei plessi scolastici. Superfluo dire che si tratta di un arretramento rispetto a quel poco o tanto che si era compiuto per alleviare il disagio di chi vive nelle nostre aree marginali e periferiche.
Aree che ricordiamo hanno avuto una diversa e più adeguata considerazione con la nascita della Strategia nazionale per le aree interne (Snai) avviata tra il 2012 e il 2014, al seguito dell’Agenda 2020 dell’Unione europea, con il proposito di un nuovo approccio allo sviluppo «basato sui luoghi» (place-based). Nel 2013, infatti, l’Agenzia per la coesione territoriale del ministro Fabrizio Barca, attraverso l’ascolto delle comunità locali, l’indirizzo di risorse finalizzate e non più compensative e la verifica dei risultati, si esponeva per la prima volta e in via sperimentale, a contrastare il declino demografico ed economico dei piccoli paesi e del loro abbandono.

DELL’ESPERIENZA SNAI tratta L’Italia lontana. Una politica delle aree interne (Donzelli, pp. 219, euro 19) a cura di Sabrina Lucatelli, Daniela Luisi e Filippo Tantillo: una serie di contributi di sociologi, economisti, amministratori pubblici e ricercatori, che illustrano le tappe di quella singolare esperienza. I testi sono introdotti da una conversazione con Barca che consegna un «bilancio critico» di quella iniziativa e si conclude auspicandone un «rilancio», anche se sarà difficile con gli attuali equilibri politici in Parlamento.
Dalla lettura dei vari scritti emerge come, con le attività della Strategia, si sia ormai rafforzata la consapevolezza che per modificare la realtà dei piccoli comuni occorra attuare processi di partecipazione tra saperi locali ed esterni. Inoltre, che solo nel dialogo fra territori e istituzioni è possibile trovare soluzione ai gravi problemi che impediscono coloro che abitano le aree interne di migliorare le loro conoscenze e accrescere il loro potere di scelta (empowerment).

Paul Cezanne, La maison lezardée, 1892-94

TRA MAPPATURE dei territori e missioni sul campo si sono tuttavia costruiti quei «mattoni necessari» di cui parla Barca, citando Albert Hirschman, che saranno utili per il futuro e senza i quali qualsiasi cambiamento democratico si blocca.
Tra questi «mattoni» c’è il lavoro di ricerca dell’Associazione «Riabitare L’Italia» al quale fa riferimento il libro Contro i Borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi (Donzelli Editore, pp. 181, euro 18): una raccolta di scritti curata da Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, che si collega alla Strategia delle aree interne e che argomenta la necessaria «decostruzione» del termine «borgo», ormai falsificato dal processo di «esteticizzazione di un’Italia oleografica» che non dà risposte alla vita delle persone che lo abitano tra estreme difficoltà pur con la massima resistenza.

OCCORRE «DECOSTRUIRE» il «borgo» per togliergli quella «neutralità bonaria, fintamente pacificatrice – scrive De Rossi – che assume la bellezza come descrittore vuoto, cela la rendita che i progetti di gentrificazione dei borghi portano con sé, occulta la dimensione di classe che le scelte individuali di chi ’sale in montagna’ permettono».
Nel saggio è innanzitutto posta in evidenza l’urgenza di contrastare gli stereotipi nostalgici di luoghi e architetture che «negano la storia», almeno nelle due forme indicate da Carlo Olmo del «mascheramento» della vita contadina e della contrapposizione del «borgo» alla città, che non è mai considerato per le sue concrete possibilità di sviluppo autonomo e per la sua fedele identità. Non è un’impresa facile dare ai paesi – come Pietro Clemente invita a chiamare i «borghi» – un diverso destino che non sia quello descritto dalla retorica neoliberista.
Lo si vede dal modo «ideologico, esterno, etnocentrico» con il quale sono stati considerati fino ad oggi e che anche Vito Teti rimarca essere «fuori dalla storia». Il paese è, infatti, visto nella condizione di essere «o ridotto a luogo della miseria e dell’arretratezza, o esaltato come luogo incontaminato e puro».
Una «macedonia di progetti» (Barca-De Luca) si sono stratificati all’interno di questa dicotomia: dalla mostra Arcipelago Italia durante la XVI Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia (2018), ai disarticolati bandi ministeriali del Pnrr di cui abbiamo detto all’inizio. Con simili iniziative si agisce attraverso azioni puntiformi: s’individuano dei poli attrattori da rendere immediatamente cantierabili, ma che sono estranei, come riporta Letizia Bindi, sia «al paesaggio culturale diffuso da proteggere e valorizzare», sia ai «processi locali virtuosi» più lenti di quelli richiesti dalle logiche verticistiche di enti e istituzioni centrali.
LA «RIDETERMINAZIONE SEMANTICA» della parola «borgo» accompagna quella di «restare». Lo spiega con convincente esposizione, in molti tratti autobiografica, Vito Teti in La restanza (Einaudi, pp. 159, euro 13): il racconto del «viaggio da fermo di chi resta, e, contemporaneamente, sul radicamento archetipo a un luogo di chi parte».
Quanto sia rilevante il tema lo ha rivelato anche la ricerca Giovani dentro (2020) dell’Associazione «Riabitare L’Italia»: su un campione di giovani residenti nelle aree interne rilevò che la metà (52%) avrebbe voluto restare nel luogo in cui viveva e solo il 12% trasferirsi e lavorare altrove.
In questa inattesa volontà di restare degli abitanti nei loro paesi s’inserisce la «rivoluzione della restanza» che per Teti nasce dalla consapevolezza di «problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni».
Per l’antropologo calabrese invertire la rotta dell’abbandono di interi territori e paesi è possibile. È sufficiente seguire un diverso modello di sviluppo. Per questo occorre costruire un «nuovo modo di abitare e organizzare gli spazi, economie, relazioni» affinché dalle prerogative paesaggistiche e culturali dei luoghi si generino virtuosi processi economici (turismo, agroalimentare, ecc.) che nell’innovazione sociale e tecnologica siano in grado di trasformare i saperi tradizionali e locali.
La «restanza» è la sola maniera di «opporsi allo svuotamento dei paesi» e va intesa come una «forza di conservazione attiva e rigenerante dei luoghi». L’hanno saputa descrivere con effetto una serie di scrittori che Teti cita per delineare le tracce di una speciale «genealogia della restanza»: da Marco Balzamo a Donatella Di Pietrantonio, da Franco Arminio a Licia Giaquinto, da Maurizio Fiorino a Sonia Serazzi e Antonella Tarpino.
Ai loro scritti va aggiunto il capitolo autobiografico La casa ovunque dell’autore: «ogni giro lungo, ogni desiderio di fuga mi ha riportato a casa da dove non sono mai andato via».