Il coronavirus straripa, l’economia trema. Tornano in campo le banche centrali e ai numeri del contagio si affiancano quelli dei soldi che vengono «pompati nel sistema». La Fed annuncia un piano di acquisto di titoli di stato e obbligazioni garantite da mutui ipotecari per un valore di 700 miliardi di dollari, dal Giappone fanno sapere che sono pronti a raddoppiare gli acquisti nel settore azionario. Da seimila a dodicimila miliardi di yen.

Più modeste, per adesso, le intenzioni della Bce, ma pur sempre di centinaia di miliardi di euro si tratta.

A cui si aggiungono le promesse del governo italiano e tedesco di mobilitare rispettivamente 350 e 550 miliardi di euro, confidando sull’effetto leva delle prime risorse stanziate. I mercati però non si acquietano (Milano tracolla di nuovo, Wall Street non è da meno), crolla pure il prezzo dell’oro, fino a ieri considerato il principe dei beni rifugio (si vende l’oro per coprire le perdite nel mercato azionario) e va a picco quello del petrolio. Un vero e proprio tsunami.

Ma da dove vengono tutti questi soldi? La domanda risente di una concezione del denaro che da molto tempo non ha più attinenza con la realtà. Se anziché nel 2020 ci trovassimo nel 1600, ai tempi della peste del Manzoni, per aumentare la base del denaro in circolazione avremmo dovuto scavare decine e decine di nuove miniere nel Nuovo Mondo.

Perché all’epoca il denaro era qualcosa di solido (solidus, soldo), coincideva con il metallo nel quale la moneta veniva coniata. Oggi il denaro è fatto per gran parte di numeri, solo il 3% è costituito dalle banconote e dagli spiccioli che portiamo in tasca, che pure non hanno più alcun ancoraggio ad altri materiali. Il denaro, nella nostra epoca, si fa da sé, scrivendone, per l’appunto, il numero.

Tanto denaro ma non per tutti. Le politiche «non convenzionali» delle banche centrali sono diventate sempre più permanenti. Ma risentono di un limite strutturale. O ideologico, che forse è più corretto.

Non contemplano la possibilità che una parte del denaro creato dal nulla finanzi direttamente la spesa pubblica in deficit.

Gli Stati devono coprire la propria spesa con le tasse dei cittadini. Se la spesa eccede la raccolta fiscale c’è solo il mercato. Debito, interessi, soldi pubblici che riempiono le tasche dei rentiers della finanza.

Quando la Lagarde ha detto che la Bce non può intervenire sugli spread ha espresso un concetto ben codificato nella teoria economica dominante: il prezzo del finanziamento degli Stati lo decide il mercato, né gli Stati stessi né l’autorità monetaria. E i fatti successivi, ovvero lo spread italiano di nuovo sopra i 250 punti nonostante l’acquisto di Btp sul mercato (50 milioni su ciascuna operazione), hanno dimostrato che al di là delle parole, il problema in Europa è sistemico.

Eppure non è stato sempre così. Prima che vincesse l’ideologia monetarista il rapporto tra governi e autorità monetarie è stato di assoluta complementarietà. Anche in Italia è stato così, fino agli anni Ottanta. Ora è venuto il momento di ritornare su alcuni passi. L’impatto del coronavirus sull’economia sarà molto violento. Il freno alla mobilità, sia interna che internazionale, fa crollare la domanda di beni e servizi, mentre l’inceppamento della catena produttiva, da un capo all’altro del pianeta, ne riduce contestualmente l’offerta (in Cina la produzione industriale è crollata del 13,5% nei primi due mesi dell’anno).

Non basta più agire solo dal lato del costo del denaro e dare più liquidità alle banche. Se la gente sta a casa e le fabbriche chiudono non si capisce come i soldi a buon mercato possano incentivare gli investimenti privati. Lo schema classico non regge più. I soldi ci vogliono, ma devono arrivare direttamente alla vita reale.

Oggi per fronteggiare l’emergenza, domani per rimettere in sesto un’economia disastrata dalla crisi.

Ma serve la mediazione dello Stato. La moneta creata dal nulla deve finanziare direttamente i disavanzi di bilancio necessari per affrontare la situazione che si è venuta a creare.

In Europa, questo significa non solo superare il patto di stabilità, ma riformare lo statuto del «sistema» delle banche centrali.

Anche perché l’alternativa potrebbe essere la fine del progetto di integrazione.