Non ce la fa più a camminare da solo, non è in grado neppure di reggersi in piedi. Quasi cieco, non riesce più né a leggere né a scrivere, la sua voce è divenuta un sussurro.

Ma ancora qualche giorno fa veniva fatta circolare una foto, scattata nel l’ottobre scorso, a riprova che «il compagno Deng Xiaoping sta bene». Un’istantanea sfocata di un piccolo vecchio imbacuccato in abiti ormai troppo larghi, dallo sguardo opaco e tremolante ma non ancora del tutto spento. Da qualche giorno, però, il leit motiv è cambiato. La settimana scorsa, in un’intervista al New York Times, la figlia Deng Xiao Rong ha ammesso che la salute del padre «declina di giorno in giorno».

Ieri, lo stesso regime si è deciso a prendere atto della situazione e, a una domanda in proposito formulata ben cinque giorni fa. ha sostituito il rituale «Deng Xiaoping sta bene» con un «tenendo conto che si tratta di un uomo di 90 anni, la salute di Deng tutto sommato è buona».

Guardando quella foto pubblicata da un giornale di Shanghai. ci si rendo conto di quanto sottile sia la soglia che separa ormai Deng dal momento in cui, come ima volta ha dichiarata, andrà ad «incontrare Marx», ed è probabile che quella iniziata da qualche giorno sia la cronaca di un’agonia pilotata, necessaria ai successori dell’anziano leader per capire davvero come sarà il «dopo Deng».

Anche se materialmente fuori gioco, quella vita tremolante viene ancora vista come l’unico elemento in grado di connettere insieme i pezzi sempre più contraddittori di un paese lanciato a tutta velocità in uno degli esperimenti di riforma economica più radicali e sconvolgenti degli ultimi venti anni, iniziato ancor prima del fatidico ’89 che ha terremotato l’Est europeo.

Solo alcuni paventano, alla morte di Deng, l’esplosione di grandi disordini, ma nessuno dubita che la Cina entrerà in un periodo di grande incertezza, politica, economica e sociale. La transizione è comunque iniziata già da tempo, e con essa la battaglia politica dentro il Partito per assicurare la successione.

Jiang Zemin, il presidente, segretario di partito e capo della Commissione militare, sembra averne tutti i titoli, e non lascia passare occasione per ribadirlo. Ieri, in concomitanza con la dichiarazione sulla salute di Deng diffusa dal portavoce del ministero degli esteri, il Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Pcc spiegava in un corsivo che il paese si deve unire sotto la guida di Jiang e mettere in secondo piano gli interessi dei singoli a favore dell’interesse generale del paese. «Dobbiamo guardare al disegno complessivo, bisogna con determinazione stabilire un’ideologia complessiva per tutto il paese, come se si trattasse di i una partita a scacchi».

Un’allusione, neppure troppo velata, ad uno dei più grandi timori riguardo al dopo Deng: la politica di sviluppo economico differenziato ha creato veri e propri abissi tra regioni avanzate del sud e della costa, teatro della sperimentazione economica, e regioni arretrate dell’interno.

E mentre le prime mordono il freno per la dipendenza da Pechino, vissuta come una palla al piede e un drenaggio di risorse, le seconde esprimono a loro volta insoddisfazione per una politica centralista vissuta come ingiusta perché dispensa possibilità e privilegi secondo criteri oggi non più accettati.

A ciò si aggiungano le difficoltà e i problemi originati dalle riforme, rivelatisi da tempo. Uno dei più giganteschi è stato reso noto ieri: i disoccupati sarebbero ormai 230 milioni, oltre il 30 per cento della forza lavoro del paese. La cifra viene da un rapporto citato ieri durante la presentazione di uno speciale programma di istruzione professionale per i disoccupati lanciato dalla città di Shanghai e dalle regioni dell’Anhui e del Fujan.

Questo oceano di disoccupati include anche precari e lavoratori che beneficiamo di sussidi ed è alimentato soprattutto dalle campagne dove la forza lavoro in soprannumero viene ormai calcolata in 200 milioni di persone. Un esercito in marcia sulle città. Il fenomeno dilaga e il governo ha cominciato a correre ai ripari. Così è stato creato un fondo di liquidazione (che però consiste solo in un anno di salario), un’assicurazione contro la disoccupazione e la creazione di centri per riqualificare i lavoratori licenziati.

Intanto, è ripreso il rilancio ideologico del Partito, deciso nell’ottobre scorso dall’ultimo Plenum. Indebolito dal pragmatismo e screditato dalla corruzione (a partire dal 1993 il 60% delle cellule rurali aveva smesso di funzionare) il Pcc tenta di risalire la china. Se questo non basterà (e già non basta, come dicono le notizie di proteste e rivolte, sia pure isolate, che riescono comunque a filtrare) il bastone è sempre pronto.

Jiang Zemin si è apertamente appoggiato ai militari, divenuti a loro volta una delle potenze economiche più forti del paese. Da qualche mese, il pugno di ferro è tornato ad abbattersi con forza sui dissidenti. Nel dicembre scorso, condanne fino a venti anni sono state inflitte ai fondatori di un partito democratico e di un sindacato autonomo.
Tutto sembrerebbe pronto. Adesso Deng può anche morire.