Svegliarsi con le esplosioni. La corsa per cercare il passaporto. Gli strazianti viaggi in treno per poi ritrovarsi tutti ammassati sui confini. Il panico silenzioso delle auto che avanzano verso la città di Przemysl, al confine polacco. Dolore e comunanza.

«IL MATTINO DEL 24 FEBBRAIO dello scorso anno, la mia sveglia non ha fatto in tempo a suonare. Per lei hanno suonato le sirene. Un suono sconosciuto», ci racconta Yevgeniy. Le truppe russe avevano iniziato a invadere l’Ucraina via terra, aria e mare. «Con la mia famiglia non ho più parlato del sogno di acquistare casa. Si parla solo di sopravvivenza. E per sopravvivere si paga un prezzo troppo alto. Adesso le nostre vite hanno un altro orologio», aggiunge.

«Ho aiutato la resistenza», continua Yevgeniy. Segue un silenzio pieno di parole. Guardiamo i suoi occhi di bestia ferita. «Abbiamo eretto muri con sacchi di sabbia nelle strade delle città – dice – per impedire il passaggio dei carri armati russi. E ancora oggi questi muri tengono».
Temendo per la propria sicurezza, l’Europa ha accolto senza obiezioni la gente che compone questo esodo esausto, alcuni di loro rifugiati, alcuni di loro sopravvissuti a conflitti durati anni con i separatisti sostenuti dalla Russia nell’est ucraino. La maggior parte di loro distrutta.

ANCORA FERITA dai combattimenti, Kharkiv alle 9 di sera inizia a spegnere le sue luci una dopo l’altra. Nessuna insegna. Nessun lampione sulla strada. Solo una manciata di macchine e fermate dell’autobus vuote e buie. Finestre piccole, senza persiane. Poche luci all’interno delle case. Alle 11 inizia il coprifuoco.

La notte è segnata da continui allarmi antiaereo, che non ti permettono di dormire per più di un paio di ore di seguito. Di notte è tutto fermo, tranne i rumori della guerra. Quelli sono vivi. Sono fuori dalla finestra di ogni casa, pronti a entrare, a sventrare la vita di ognuno.

Il suono dell’allarme antiaereo è costante, come è costante la sensazione di angoscia che lascia nell’aria. «Quando suona non lo fa per una sola volta, ma almeno cinque/sei volte. Sempre uguale, sempre assordante», ci racconta Yulia dal buio della cucina della sua casa, nell’area martoriata di Kupyansk. Come a ricordare al mondo e a sé stessa la vita che sta subendo.

Dotazione minima vicino alla linea del fronte è l’app «Povitriana tryvoha» (Allarme aereo). Emette un suono tonante e spietato, come avvertimento per imminenti raid o manovre aeree. La stessa app poi, una volta dato il segnale di allarme, ti dirige verso il gruppo Telegram «Ukryttia» (Riparo), gestito dalla Stfalcon company, che indica un rifugio in base alla propria posizione.

NELLE STRADE FANGOSE di Kupyansk si ergono cartelloni pubblicitari trivellati dai colpi di arma da fuoco, raffiguranti i progetti di nuove torri di uffici, costellati di luci. Ma bisogna essere realistici, qui siamo in una zona militarizzata.

Il disegno strategico si fa presto strada. I piccoli paesi non esistono già più. «Ho paura di addormentarmi perché ho paura di controllare le notizie quando mi sveglio» ci dice Mikhaylyna con voce tremante. «Ho paura che scompaia anche il mio paese». Racconta che quando al mattino prova a chiamare i suoi genitori, nella sua testa iniziano a correre pensieri terribili – E se fosse successo qualcosa? E se la casa fosse stata distrutta? E se non li rivedessi mai più?

È DESOLANTE quello che troviamo sull’Aviacijna Vulica, una delle strade principali del distretto di Kupyansk-Vuzlovyi. Case abbandonate e terreni incolti. I vetri delle finestre sono stati ricostruiti con pannelli in legno. In guerra il legno è prezioso. È evidente che però così i raggi del sole non entrano più nelle case. Le finestre che resistono alle bombe, invece, vengono schermate con sacchi di sabbia. Le strade sono martoriate. È una gincana tra buche e distruzione. I crateri dei nuovi bombardamenti si riconoscono subito. Vengono rapidamente coperti con rami di alberi e plastica dalle forze ucraine che pattugliano l’area.

UN PAESE IN GUERRA si vede dai bambini. Non ci sono più nelle strade. Non si sentono più le loro voci. A Dovud, che ha soltanto 5 anni, manca il suo gatto Motya. Ci racconta che non poteva portarlo sul treno: «Troppo difficile con tutte le borse. Probabilmente ora sta andando male per Motya. Senza mamma. Senza di me».

Esiste un programma governativo per l’evacuazione obbligatoria delle famiglie con bambini, dalle aree più pericolose del Paese. Così la famiglia di Dovud non è andata via dall’Ucraina ma si è spostata da Kupyansk a Kiev. La mamma di Dovud ci racconta che la situazione a Kupyansk era diventata più disperata, con i negozi vuoti e le scorte di cibo in diminuzione.

Ma nonostante gli attacchi aerei, gli edifici distrutti, le strade spezzate «la maggioranza resta e aiuta». Lavorano nei servizi della città: pulizia, trasporto di persone e materiali. E c’è anche chi aiuta l’esercito a riempire sacchi di sabbia, allestire posti di blocco, preparare scorte di acqua e cibo. «Chi è rimasto è spaventato e scioccato. Ma siamo uniti. Quando caddero le prime bombe in Ucraina niente sembrava reale. Gli elicotteri facevano atterrare i paracadutisti russi a Kiev. Sembrava che potesse succedere di tutto».

OGGI A KUPYANSK si vive dentro un ritmo scandito da interruzioni di corrente e generatori. I rumori sospetti sono diventati una routine. E la paura si è presto trasformata in forza. «Il mio ospedale è stato sotto occupazione russa dal febbraio al settembre 2022 – ci dice Tatyana, medico del Central City Hospital di Kupyansk e direttrice della Kupyansk Medical Association -. L’amministrazione era russa ma il personale sanitario è rimasto interamente quello ucraino». Ai militari russi entrati nel suo reparto ha detto: «Ho un camice bianco. Non ho bisogno di essere sorvegliata. Lavoro senza guardie».