Slogan semplice ma efficace: il colonialismo del copyright. L’ultima vittima, in piena pandemia, è il Sudafrica complice anche l’Unione europea. Fa un certo effetto se si pensa che ventitré anni fa, con il governo di Mandela, proprio il Sudafrica varò il Medecines Act, permettendo al Paese, dopo più di un milione di morti e una battaglia durissima, di produrre ed acquistare a prezzi accessibili i medicinali contro l’Aids sfidando i brevetti delle multinazionali del farmaco. Ora lo scenario sembra ripetersi.

LO SCONTRO stavolta non è sui brevetti ma sul copyright, sul «tutti i diritti riservati», un tema particolarmente sentito nel Paese africano. Al punto che dall’inizio della discussione su una nuova legge al suo (quasi) varo è passato un quinquennio. Le questioni in gioco sono molte e investono diversi settori: intanto le università sudafricane che utilizzano gran parte dei testi scritti ed editi all’estero, poi i musicisti di Città del Capo, di Soweto, di Johannesburg che hanno contratti capestro con le Major. E la produzione culturale che è quasi interamente nelle mani di società multinazionali.
Si partiva dunque da qui, ma anche dal dettato costituzionale che obbliga, solo per dirne una, il legislatore a «limitare le ingiustizie sociali nell’accesso all’istruzione». E ognuna delle questioni è stata discussa con tutti, compresi – è rilevante notarlo – i rappresentanti dell’Unione europea.
Finalmente, pochi mesi fa, la presentazione della legge e il sì dell’assemblea sudafricana. Restava solo la firma del presidente Ramaphosa, che un po’ come in Italia in questi casi avrebbe solo il compito di controllare la costituzionalità del testo.

LA FIRMA però non è ancora arrivata. Perché prima della fine dell’anno scorso, il commissario commerciale degli Stati Uniti per il Sudafrica – su pressione di Hollywood e di Trump – ha fatto di tutto per bloccare il varo definitivo del testo. Ha chiesto un incontro con Ramaphosa, ha mobilitato l’industria cinematografica statunitense, ha fatto capire che gli States sarebbero stati in grado di paralizzare dal punto di vista digitale il paese. E ha riproposto – in una riunione formale, con tanto di resoconto – la minaccia di imporre dazi su 3500 prodotti se le sue lamentale non fossero state accolte. Tariffe che saranno revisionate esattamente nel luglio di quest’anno.

Cosa temono? Per esempio la norma che prevede che di fronte ad un’emergenza lo Stato possa fornire libri, software, computer agli studenti che ne abbiano bisogno per garantire loro il diritto allo studio- E che – dato da sottolineare – è stata scritta molto prima dell’arrivo del Covid-19, e se fosse stata approvata nei tempi previsti avrebbe risolto uno dei problemi più drammatici del paese costretto al lockdown.

IL TESTO prevede poi per gli artisti sud africani la possibilità di rescissione di un contratto se è particolarmente svantaggioso. O – esattamente com’è scritto nel documento di Marrakesh, sottoscritto da tutti i paesi del mondo – che anche il Sudafrica possa utilizzare i benefici per garantire alle persone con disabilità l’accesso all’informazione. Nulla di radicale, insomma, la fine dei «diritti riservati» arriva dopo venticinque anni e la legge consente esattamente quanto è consentito negli Stati Uniti: il fair use, la possibilità di utilizzare piccole parti di un’opera protetta per poterla rielaborare – il mash up che si fa in musica, per capire.
Di fronte alle pressioni americane, Pretoria ha preso tempo ma – essendo abituati all’invadenza statunitense – nessuno se ne è curato più di tanto, mentre e la firma del presidente era attesa per l’inizio del mese.
Invece in campo è entrata anche l’Europa, l’Unione europea per l’esattezza. È infatti di pochi giorni fa, una lettera che l’ambasciatrice Ue in Sudafrica, Riina Kionka, ha scritto a Ramaphosa, spiegando che il vecchio continente è particolarmente preoccupato per la legge, soprattutto per il «fair use» e per le troppe esenzioni previste.

ESATTAMENTE come la direttiva varata l’anno scorso a Bruxelles, la comunità europea vorrebbe una normativa che tuteli solo ed esclusivamente i proprietari dei diritti. Del resto l’ambasciatrice se lo lascia sfuggire un po’ ingenuamente: «L’industria cinematografica, della musica, dell’editoria, delle tecnologie è allarmata – scrive – e sta pensando di disinvestire in Sudafrica. Spero che lei tenga conto delle loro preoccupazioni».
È colonialismo, insomma, «colonialismo del copyright», appunto per usare l’espressione di Julia Reda, l’ex eurodeputata tedesca verde-pirata (che ora ha scelto di tornare all’università e che alle ultime elezioni ha fatto appello a votare simboli di sinistra e progressisti e a non votare pirata, visto che in lista c’era una persona accusata di molestie). È il colonialismo delle Big Tech, delle Major, dei colossi dell’informazione che regalano milioni di dollari ai fondi per aiutare i paesi in via di sviluppo. Ma non tollerano una legge che limiterebbe il loro futuro.