La DDR è una faccenda di famiglia. Klaus Gysi (1912-1999) a quindici anni vede un lavoratore ucciso dalla polizia ed entra nell’associazione giovanile comunista e più tardi nel partito, fino al tracollo. Membro della resistenza francese, in seguito è di nuovo a Berlino fino al 1945 in clandestinità.

Direttore di casa editrice, ministro della cultura, ambasciatore anche in Italia, segretario di stato per gli affari ecclesiastici. “Der Funktionär“ (“Il funzionario“, nella versione inglese semplicemente “The Communist”) è il documentario di Andreas Goldstein su suo padre, uno dei suoi sette figli avuti da tre donne diverse e nel 2018 presente alla Settimana della Critica veneziana con “Adam & Evelyn”. Uno sguardo retrospettivo disincantato, un montaggio a tratti onirico sul pubblico e privato legati da foto, documenti d’archivio e interviste. Un documentario anche sul presente, in fondo, e interessato ad andare oltre la polarizzazione che le questioni della DDR introducono: libertà contro repressione; un sistema binario a cui è affidato il riscatto o la condanna definitiva. Goldstein ribadisce che “Il funzionario” non è da intendersi in senso svalutativo, piuttosto la domanda è: che tipo di funzionario era? Gysi è ricordato da molti come un politico dalla retorica coinvolgente, a torto considerato un liberale, a suo agio in ogni ruolo assegnatogli. Un uomo di partito “con cui si poteva parlare”, per altri solo un opportunista.

Per certo un politico che aveva fatto della “distanza” e della adattabilità un valore di sopravvivenza in un secolo travagliato e ostile alle sue origini ebraiche. Abile maestro di tatticismi politici, ovvero dell’ossatura portante di quello e altri regimi, nelle parole di Gysi non c’è ammissione di colpe storiche ma la consapevolezza e la coerenza di essere stati degli eroi tragici dietro un’ utopia nel regno dell’impossibile.

Il regista, nato nel 1964 a Berlino Est, traccia non un ritratto o una cruda biografia, ma racconta il padre filtrato dalla sua esperienza e dai materiali ritrovati che fungono da utile distanza/distacco e raccordo per le domande che cercano ancora risposte, volutamente, dice il regista, altrimenti il documentario declinerebbe in un funerale. Gli scatti di una Berlino anche odierna richiamano un vuoto urbano, una sospensione di verdetto. Se la DDR si definiva “una terra ancora da completare” anche questo documentario ne segue artisticamente il passo.

 

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