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Il commercio salva le basi Usa in Giappone

Il commercio salva le basi Usa in Giappone

Tokyo e Washington La politica giapponese è divisa sulla presenza americana. A mettere tutti d’accordo è il trattato Free and Open Indo-Pacific per «contenere» Pechino e la Nuova via della Seta

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 28 agosto 2019

Il Giappone «è la portaerei inaffondabile degli Stati uniti nel Pacifico», il primo ministro Yasuhiro Nakasone riassumeva così nel 1985 il rapporto militare tra i due paesi.

Il Giappone ospita le forze americane necessarie per un rapido dispiegamento in un arco che va dalla Corea a Taiwan e giù fino all’Indocina, per difendere le proprie rotte commerciali e per difendersi lontano dalle proprie coste. Le basi in Giappone sono un’eredità dell’occupazione americana del dopoguerra e come tali sono percepite dalla maggioranza della popolazione.

Il pubblico americano, almeno nelle parole di Trump, sembra invece più incline a pensare che siano lì solo per fare un favore al Giappone. Trump ha più volte sostenuto che il trattato di sicurezza con il Giappone è ingiusto per gli Stati uniti, ma quel che Trump vuole sono più acquisti di materiale bellico made in Usa.

La visione di Trump è datata e poteva essere vera negli anni Cinquanta, ma la difesa del Giappone ha compiuto da allora una enorme evoluzione e il paese contribuisce oggi appieno alla propria sicurezza con più di 40 miliardi di dollari di budget, un ruolo che è sancito anche dalle nuove linee guida per la difesa Usa-Giappone, secondo le quali Tokyo cura la propria sicurezza e nessuna unità americana è lì esclusivamente per la difesa del Giappone. Le basi americane servono ora al bilanciamento regionale.

La politica giapponese è divisa sulle basi. I nazionalisti conservatori, tra cui l’attuale premier Shinzo Abe, vogliono un’alleanza tra eguali con gli Stati uniti e le basi. Una fazione ancora più a destra vorrebbe la piena autonomia dagli Usa con un deterrente nucleare autonomo; mentre la sinistra da lungo tempo ha proposto un’alleanza militare senza una presenza americana fissa, con l’obiettivo di dare maggiore peso al soft power, al prestigio economico e al rafforzamento della fiducia e delle strutture multilaterali interasiatiche. I critici mettono in evidenza che la presenza americana conduce anche a una politica irresponsabile verso i vicini.

Se le basi sono la garanzia al centro della politica estera giapponese, la loro presenza richiede una costante opera di convincimento della popolazione da parte del governo centrale. Gli aspetti di questa ospitalità che più pesano ai giapponesi sono soprattutto due: gli alti costi e il crimine.

Esiste un termine popolare per definire le spese per le basi Usa: omoiyari yosan, il budget di simpatia. Il paese ospita alcune delle più grandi basi americane: Yokosuka, la più grande al mondo fuori dagli Stati uniti sede della VII Flotta, e Kadena a Okinawa la più grande base aerea del Pacifico occidentale. Il conto lo paga soprattutto Tokyo, che copre il 75 per cento dei costi. La paura dei crimini è molto sentita tra la popolazione. Tra il 1972 e il 2009 sono stati 5.634 i reati commessi dai militari americani, 25 i casi di omicidio, 127 stupri.

Lo stupro di una ragazza di 12 anni nel 1995 sull’isola di Okinawa portò in strada il 21 ottobre di quell’anno 850.000 persone e diede inizio a un movimento di protesta che da allora non è ancora scemato.

L’isola di Okinawa a causa della sua posizione strategica rispetto alle rotte commerciali e al continente ospita la maggioranza dei militari Usa di stanza in Giappone. Le forze armate americane hanno diritto di uso esclusivo su circa 700 chilometri quadrati di territorio giapponese e di questi tre quarti sono proprio a Okinawa. L’isola rappresenta però solo l’uno per cento del territorio nipponico.

L’alta densità di truppe crea problemi sia di giurisdizione (le basi godono di extraterritorialità), che di dipendenza economica. La popolazione da anni combatte una battaglia politica che vede i vari governatori dell’isola, da ultimo Denis Tamaki, come Davide di fronte al Golia dell’amministrazione di Tokyo.

Il motivo dello scontro è una base che (ancora) non c’è: quella di Henoko, che sostituirà la grande base dei marines di Futenma, troppo vicina ai centri abitati.

Lo scopo dei movimenti di protesta, però, è che le truppe lascino l’isola e non solo che vengano rilocate al proprio interno. Alcune migliaia di militari americani sono stati già spostati tra Guam e le Hawaii, ma la vera alternativa di ospitare le truppe sulle isole principali del Giappone è politicamente impraticabile perché coinvolgerebbe da vicino tutti i giapponesi e non solo la minoranza, etnica, di Okinawa, su cui viene scaricato il problema.

L’interesse comune che lega Giappone e Stati uniti sulle basi è il commercio internazionale, la cui difesa i due paesi affidano alla strategia del «Free and Open Indo-Pacific».

Il «libero e aperto Indo-pacifico» è la risposta alla paura che la Repubblica popolare cinese possa bloccare commerci e approvvigionamenti giapponesi, sudcoreani e statunitensi.

Le rotte commerciali e le materie prime che arrivano dal sud al Giappone – e sono la maggioranza, si pensi al petrolio del Golfo – passano in prossimità di Taiwan, per questo un’invasione cinese dell’isola darebbe il controllo delle vitali rotte verso Giappone e Pacifico alla Cina.
Fukoku kyōhei – «arricchire la nazione, rafforzare l’esercito» – era il motto nazionalista dell’era Meiji e qualcuno tra gli analisti militari a Tokyo teme che sia la Cina oggi a voler fare lo stesso.

Un’ironia della sorte, dato che il motto è tratto proprio da un classico della letteratura cinese: “Strategie degli stati combattenti”.

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