Il collettivo di ebrei francesi decoloniali Tsedek («giustizia» in ebraico) è nato nel 2023 ed è diventato presto uno dei punti di riferimento dei movimenti antirazzisti in Francia, mobilitandosi a lungo per il sostegno alla Palestina. Tsedek sostiene il Nuovo Fronte Popolare, così come una miriade di altri movimenti, collettivi e associazioni che combattono ogni forma di razzismo e xenofobia. Per Simon Assoun, uno dei portavoce, la questione dell’antisemitismo è stata utilizzata per «squalificare» moralmente la sinistra francese in una campagna mediatica che giudica «catastrofica».

Nel discorso pronunciato alla chiusura delle urne domenica sera, Marine Le Pen ha fustigato una «sinistra estrema, violenta e antisemita». Come interpreta queste parole che vengono da un partito storicamente antisemita, il cui fondatore – Jean-Marie Le Pen – è un notorio negazionista della Shoah?

È una catastrofe. Una catastrofe che riassume efficacemente venticinque anni di sdoganamento dell’estrema destra francese e altrettanti di strumentalizzazione dell’antisemitismo. C’è una perdita dei punti di riferimento. Ma la retorica del Rassemblement Nationale è come una trappola che si richiuderà sugli ebrei, giacché quel partito è ben lontano dall’aver fatto i conti con la pagina antisemita della propria storia, che è tuttora al cuore della sua ideologia. Ovvero una lettura profondamente razzista del mondo.

Più in generale come si spiega il flirt tra una parte della comunità ebraica francese e l’estrema destra lepenista?

Negli anni le istituzioni comunitarie ebraiche francesi si sono spostate a destra, seguendo lo scivolamento reazionario dello Stato e della politica, tanto in Francia quanto in Israele. La «destrizzazione» del dibattito pubblico e l’islamofobia rampante nel paese spiegano molto di questo flirt. Per esempio, nel 2002 il presidente del Crif (la più importante istituzione comunitaria dell’ebraismo francese, ndr) Roger Cukierman disse che il passaggio di Jean-Marie Le Pen al primo turno delle presidenziali era positivo perché costituiva «un messaggio ai musulmani affinché restassero tranquilli».

Le accuse di antisemitismo nei confronti di Jean-Luc Mélenchon e de La France Insoumise (Lfi) hanno dominato la campagna elettorale per le europee, così come per le legislative. Cosa ne pensa?

La questione dell’antisemitismo è utilizzata nel quadro di questa campagna come un mezzo per squalificare la «sinistra di rottura» e la sua solidarietà alla Palestina. Ogni frase degli esponenti della France Insoumise viene estrapolata dal contesto e stravolta, fino a farle dire cose assurde, con l’unico obiettivo di giustificare l’accusa di antisemitismo. Ma quando ci si prende il tempo di analizzare davvero gli enunciati sotto accusa, ci si accorge che non c’è niente di concreto. L’antisemitismo, in realtà, è strutturale nelle nostre società. La sinistra non è impermeabile, come non lo è a sessismo, razzismo, omofobia… Ma queste strumentalizzazioni impediscono di avere un dibattito serio e sereno sul tema. Detto ciò, non c’è un problema specifico di antisemitismo dentro Lfi o più in generale nella sinistra. Non c’è niente nel loro programma, nei loro discorsi, che veicoli l’antisemitismo.

Che effetti hanno queste accuse alla sinistra rispetto alla lotta contro l’odio anti-ebraico?

Sono strumentalizzazioni che ci mettono in pericolo in quanto ebrei. Perché se non si cessa di diffondere l’idea che la sinistra è antisemita, che i musulmani sono antisemiti, che gli immigrati sono antisemiti, vuol dire che per lottare contro l’antisemitismo non ci resta che lo Stato e Marine Le Pen. È un modo per isolarci dai nostri alleati, che sono le persone che subiscono il razzismo, creando una situazione di «panico morale». Per queste ragioni secondo noi la lotta contro l’antisemitismo non può che iscriversi nel quadro della lotta antirazzista.