Il messaggio è arrivato forte e chiaro: la Costituzione di Pinochet deve andare al macero, insieme alla pesante eredità che ha schiacciato il popolo cileno negli ultimi 30 anni.

L’ESITO DEL PLEBISCITO di domenica per una nuova Costituzione non ha infatti lasciato dubbi: l’Apruevo ha vinto con il 78,27% dei voti contro il 21,73% dei Rechazo e la scelta dell’organismo incaricato di redigere la nuova Carta è caduta massicciamente sulla Convenzione costituente votata al 100% dal popolo (78,99%), rispetto alla Convenzione mista composta per metà da rappresentanti eletti e per l’altra metà dagli attuali parlamentari (21,01%).

E anche l’affluenza al voto, benché solo di poco superiore al 50% e malgrado l’emergenza sanitaria, ha superato quella di tutte le elezioni realizzate a partire dal ritorno alla democrazia, con una partecipazione di più di sette milioni e mezzo di votanti.

Il messaggio, dunque, non poteva essere più esplicito, con tanto di festeggiamenti per le strade e di hashtag come #YVaACaer, «Ora cadrà», riferito al presidente Piñera, e #ChileDespertó, «Il Cile si è ridestato», ma al governo hanno fatto finta di non sentirlo, affannandosi a salire sul carro dei vincitori.

Così, nel suo discorso alla nazione, Piñera ha elogiato «la natura democratica, partecipativa e pacifica dello spirito cileno», invitando all’unità ed esortando tutti i settori a «condannare la violenza»: quella, sia chiaro, di cui sarebbero colpevoli i manifestanti, una parte dei quali si è riversata pacificamente in Plaza Dignidad e, ancora una volta, è stata repressa dai carabineros.

Non ha rinunciato, però, a una raccomandazione: quella a salvaguardare «l’eredità delle generazioni precedenti», esattamente quella che l’elettorato intende seppellire.

MA AL DI LÀ DEL TENTATIVO del presidente di allontanare da sé l’immagine della sconfitta – proprio a tale scopo il suo partito, Renovación Nacional, aveva deciso di non schierarsi –, l’estrema destra mastica amaro.

Non a caso la pinochetista Udi, che aveva sperato in un onorevole 30% dei Rechazo, ha mal digerito le scelta di Chile Vamos, la coalizione che sostiene il governo, di andare al plebiscito in ordine sparso.

In Plaza Italia la festa per la vittoria del sì (foto Ap)

 

NEPPURE LE FORZE che hanno dato vita alla rivolta – e neanche le comunità mapuche – sono riuscite in realtà a esprimere una posizione unitaria, rispettando la libertà di ciascuno di votare o meno per un plebiscito considerato ingannevole, in quanto mirato a incanalare per vie istituzionali e rigidamente controllate la potente energia di trasformazione emersa dalle strade.

Benché poi, di fronte al risultato di domenica, si suppone che non siano stati pochi, tra i settori popolari, a non lasciarsi sfuggire la possibilità di introdurre sassolini negli ingranaggi dell’ultraliberista sistema cileno, senza con ciò rinunciare alla lotta per una vera Assemblea costituente libera e sovrana.

LA VERA BATTAGLIA comincia oggi, a partire prioritariamente dalla mobilitazione di strada e dal processo di creazione, dal basso, di Assemblee costituenti a livello territoriale. Ma, perlomeno secondo una parte del movimento di protesta, senza voltare le spalle al cammino istituzionale – quello su cui sembrano aver puntato esclusivamente, e tra non poche polemiche, il Frente Amplio e il Partido Comunista – per superare quanto più possibile gli innumerevoli ostacoli posti a difesa dello status quo.

La vittoria dell’Apruevo diventa insomma oggetto di disputa tra tutti i settori, a cominciare da questioni ancora aperte come quella della partecipazione, in vista delle elezioni dell’11 aprile per la scelta dei costituenti, di rappresentanti indipendenti dai partiti tradizionali (a oggi di fatto impedita da un sistema elettorale tagliato su misura dell’attuale classe politica) o quella dei seggi riservati ai popoli indigeni.

ILLUSIONI, PERÒ, non conviene farsele: il quorum dei due terzi per l’approvazione di ogni articolo, l’impossibilità di toccare i trattati internazionali, ossia l’impalcatura del capitalismo estrattivista, l’esclusione dal processo dei giovani con meno di 18 anni stanno a indicare, tra molto altro, che non passerà da lì il vero processo di cambiamento a cui aspirano le forze popolari.