Com’era ampiamente prevedibile, non appena si è avuta conferma della morte dell’ex presidente Sebastián Piñera, precipitato mercoledì con il suo elicottero ultraleggero nelle acque profonde del lago Ranco, è scattato, tra tutte le forze politiche, il processo di santificazione. E di certo, al di là del giusto cordoglio per la sua scomparsa, gli elogi che gli sono stati tributati – e «tutti gli onori e i riconoscimenti repubblicani che merita», secondo le parole della ministra dell’Interno Carolina Toha – sono davvero un po’ duri da digerire.

COME «DEMOCRATICO della prima ora» lo ha, per esempio, descritto Gabriel Boric, parlando di lui come dell’artefice della «ricostruzione del Cile dopo il potente terremoto del 2010, della gestione della pandemia e del riscatto dei 33 minatori rimasti intrappolati sotto terra nel deserto di Atacama». Ma Piñera, di cui oggi si terranno i funerali di stato, sarà ricordato per molto altro: le sistematiche e generalizzate violazioni dei diritti umani durante l’estallido social del 2019 – 36 morti, 450 casi di lesioni oculari, abusi delle forze dell’ordine e arresti indiscriminati -, i ripetuti conflitti di interesse, le ricchezze occultate in paradisi fiscali, come quelle provenienti dalla cessione della compagnia mineraria Dominga a un suo amico di infanzia, il cui progetto minerario avrebbe poi favorito a spese del paradiso naturale dell’arcipelago di Humbold. Oltre all’impresa di averla sempre fatta franca.
E non c’è dubbio che il Cile-«oasi felice» da lui evocato poco prima che si scatenasse il terremoto della rivolta sociale, è stato tale, sotto il suo governo, solo per una ristretta élite. E, ovviamente, per lui stesso, libero, durante la pandemia, di violare il lockdown per recarsi in un’enoteca ad acquistare varie bottiglie di vino, appena poco dopo lo scandalo suscitato dalla notizia di un ordine di acquisto da parte de La Moneda di prodotti gourmet come foie gras, patè di cinghiale e caviale.

EPPURE LA SUA MORTE è riuscita a oscurare, nei mezzi di comunicazione, quella delle (finora) 131 vittime degli incendi che hanno devastato le regione di Valparaíso (e in parte anche l’Araucanía), spazzando via più di 26mila ettari e distruggendo 15mila case. Una catastrofe senza precedenti dietro a cui, al di là degli effetti del fenomeno El Niño e del cambiamento climatico, esistono potenti interessi, con relative complicità politiche e giudiziarie: la monocoltura forestale, con la continua estensione di piantagioni altamente infiammabili di pino e di eucalipto a scapito della vegetazione nativa, e la speculazione immobiliaria, in assenza di una qualsivoglia legge che impedisca alle imprese del settore di costruire su suoli distrutti dalle fiamme.

«LE IMPRESE FORESTALI stanno bruciando il Cile», titola non a caso il comunicato di una decina di organizzazioni, le quali evidenziano come l’attuale modello forestale stia godendo da decenni di ingenti fondi statali «praticamente senza alcuna regolamentazione ambientale e pianificazione territoriale».

E se il presidente Gabriel Boric ha prontamente dichiarato lo stato di emergenza nelle zone più esposte e dato ordine di mobilitare l’esercito al fianco di vigili del fuoco e protezione civile – mostrando un attivismo che gli ha permesso di risalire leggermente nei consensi -, nessuna azione di prevenzione e lotta agli incendi boschivi è riuscito a realizzare dal suo insediamento, malgrado negli ultimi dieci anni i roghi siano diventati sempre più frequenti e rovinosi. Come indica, giusto per fare un esempio, la mancanza di attrezzature per combattere gli incendi di notte, con il conseguente rischio di vanificare nelle ore notturne tutto il lavoro svolto durante il giorno.