«Ho voluto battere un colpo per riaffermare un principio: la responsabilità degli Stati di bandiera di una nave». A «battere il colpo» è stato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che spiega così il probabile divieto di sbarco dei migranti che da giorni si trovano a bordo delle navi di due ong. Dietro la decisione, ha proseguito il ministro in un’intervista alla «Stampa», ci sarebbe «il famoso caso Hirsi», quando nel 2012 la Corte d Strasburgo condannò l’Italia per aver riportato in Libia un gruppo di migranti soccorso dalla Guardia costiera e dalla Guardia di Finanza. 24 di loro, 11 somali e 13 eritrei, presentarono ricorso. «L’intera sentenza – prosegue Piantedosi – ruotava attorno al principio che se un migrante sale su una nave in acque internazionali, tutto il resto è responsabilità del Paese di bandiera». Principio che oggi il titolare del Viminale vorrebbe applicare anche alle due navi che battono bandiera norvegese e tedesca.

Anton Giulio Lana, presidente dell’Unione forense dei diritti umani, è uno degli avvocati autori del ricorso presentato all’epoca alla Corte do Strasburgo.

Avvocato Lana, il ministro Piantedosi afferma di voler ristabilire la responsabilità degli Stati di bandiera, e per questo cita la sentenza Hirsi. E’ una interpretazione corretta?
A mio modo di vedere non è una citazione corretta quella della sentenza Hirsi perché ha a che fare con una fattispecie diversa. Nel caso Hirsi le persone erano state soccorse da un’imbarcazione delle forze militari italiane ed erano state nottetempo riportate in Libia. Oggi abbiamo a che fare con delle imbarcazioni a cui potrebbe non essere consentito di entrare nelle acque territoriali italiane. Una situazione assimilabile più a quella dell’Aquarius. Quindi la citazione di Hirsi e della sua giurisprudenza con riferimento al tema della bandiera è fuorviante. Più pertinente è il riferimento al divieto, di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, di respingimento del rifugiato.

Che poi è la sostanza della sentenza Hirsi, il divieto di effettuare respingimenti.

La questione è molto complicata. Il divieto di respingere una persona che rischia la sua vita a causa delle varie forme di violazione dei diritti umani è previsto dalla Convenzione di Ginevra ed è un orientamento della Corte europea ha sposto. Nella sentenza Hirsi viene cristallizzato in riferimento ai respingimenti in alto mare, ma già c’erano sentenze precedenti riferite alle espulsioni, e per questo è importante. Nel caso delle due navi delle ong si ha a che fare con una fattispecie diversa nel senso che si vorrebbe impedire a due imbarcazioni di organizzazioni non governative di recarsi presso il porto sicuro più vicino, quindi a mio modo di vedere si viola l’articolo 33 della Convezione di Ginevra, ma anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 che sancisce il diritto di richiedere asilo. E infine si viola la norma dell’articolo 4 del protocollo addizionale alla Convenzione europea che è quella che vieta le espulsioni e, in senso più ampio, i respingimenti automatici. Alle ong, viene in soccorso anche la Convenzione per la ricerca e salvataggio in mare che prevede che le persone soccorse in mare debbano essere portate nel luogo sicuro più vicino.

I giudici di Strasburgo nella sentenza sottolineano comunque la responsabilità degli Stati e qui invece parliamo di imbarcazioni di organizzazioni non governative. In questo caso si può sostenere che eventuali richieste di asilo possono essere presentate a bordo e se ne debba occupare lo Stato di bandiera?
Dubito che le richieste di asilo possano essere presentate in questi Paesi, ma quello che a mio avviso non può assolutamente essere fatto è trattenere queste persone in condizioni di non sicurezza e di impedire loro di approdare nel porto sicuro più vicino.

Come si concilia questo obbligo con un eventuale divieto ad entrare nelle acque territoriali italiane?
Non si concilia perché è una violazione del diritto internazionale. Una violazione del diritto internazionale consuetudinario che trova spazio anche nella nostra Costituzione all’articolo 10.

Si continua a trattare la questione delle navi delle ong come se riguardasse le politiche migratorie di uno Stato e non come una conseguenza dell’obbligo giuridico di salvare persone che si trovano in difficoltà.

Torniamo a quanto detto: l’obbligo giuridico di ricerca e salvataggio in mare trova la sua disciplina nelle convenzioni internazionali e quindi è vincolante per gli Stati membri. Probabilmente siccome si tratta di un fenomeno non episodico ma strutturale, occorrerebbe una risposta organica da parte del nostro Paese e più in generale da parte dell’Europa. Parliamo di un fenomeno che ha ormai una storia, quindi non è accettabile farsi trovare sempre impreparati in vicende che hanno a che fare con la vita delle persone.