Lara è una giovane bengalese perfettamente integrata nel territorio romano. I genitori lavorano, va regolarmente a scuola, ha molte amicizie. A ridosso dei suoi 18 anni viene convinta a fare un viaggio nel suo paese di origine.

Appena arrivata viene chiusa in una stanza per quattro giorni con un suo cugino mai frequentato in precedenza e le viene comunicato che quell’uomo adesso è suo marito. Lara comunica alla famiglia che non vuole essere una moglie e il cugino la sostiene, riferiscono entrambi di non aver consumato il matrimonio. Lara torna in Italia con la famiglia e viene sottoposta a violenza fisica e verbale. La ragazza denuncia tutto alla dirigente scolastica dell’Istituto che frequenta.

Si attiva una rete che porta Lara nella casa di emergenza di Fondazione Pangea, onlus che dal 2002 lavora per la tutela dei diritti umani delle donne in Italia e all’estero.

A RACCONTARE LA STORIA di Lara – il nome è di fantasia – è Francesca Filippi, giurista della Fondazione: «Lara si è fermata da noi per pochi giorni. La famiglia, attraverso una serie di relazioni amicali era riuscita a farla rientrare in casa, comunicandole che la madre aveva avuto un infarto e che era stata ricoverata».

Nonostante il rientro nell’abitazione della famiglia, la giovane ha denunciato i genitori per matrimonio forzato. «Non è difficile immaginare quanto possa essere complesso per i servizi sociali affrontare una realtà del genere e per un pubblico ministero strutturare e portare avanti un processo di questa natura», aggiunge Filippi.

Oltre 650 milioni di donne in tutto il mondo sono state costrette a sposarsi prima dei 18 anni e ogni anno 12 milioni di bambine e adolescenti rischiano di subire un matrimonio precoce e forzato. Come segnalato da realtà come ActionAid, mancano dati sufficienti e accurati capaci di fotografare la situazione italiana. Secondo le stime dell’organizzazione non governativa il rischio nel nostro paese ogni anno riguarderebbe circa 2.000 bambine e ragazze, in maggioranza delle comunità originarie di Bangladesh, Mali, Somalia, Nigeria, India, Egitto, Pakistan.

Dall’introduzione del matrimonio forzato come reato all’interno del Codice Rosso, tra l’agosto del 2019 e il dicembre 2021 si sono registrati 35 reati di costrizione o induzione al matrimonio.
A mancare però sono le azioni concrete di contrasto. Infatti, il matrimonio precoce e forzato è stato citato anche nel piano antiviolenza 2021-2023, dove si parla di ricerca e mappatura di queste pratiche. Al momento non è stato realizzato un piano operativo e non sembra essere una priorità.

LA SECONDA STORIA che Filippi racconta è quella di Maria, 24enne di origine marocchina cresciuta a Roma con le sorelle e un fratello in una famiglia dove il padre e la madre sono venuti a mancare. «Una ragazza con tanti sogni, che vive in una situazione familiare di grande libertà. Lavora, studia e ha molte amiche», spiega sempre la giurista di Pangea.

In questo quadro la primogenita ritiene di dover «sistemare» le altre sorelle, ma Maria non è interessata al matrimonio perché vuole diventare medico. Ciononostante la sorella maggiore, insieme al fratello, e con il coinvolgimento anche della famiglia del futuro cognato, vende Maria alla famiglia dell’uomo che vuole sposarla contro la sua volontà. Per la giovane inizia una segregazione di un anno fatta di violenze fisiche e sessuali. Racconta ancora Filippi: «Un giorno lui la picchia talmente forte che lei sviene dentro casa. Appena esce, convinto di averla lasciata incosciente, Maria scappa e chiede aiuto ai vicini. Vengono chiamate le forze dell’ordine e un’ambulanza. L’ospedale chiama Pangea. Maria sporge la prima denuncia e dopo alcuni giorni entra da noi in protezione. Sono stati necessari degli interventi sanitari importanti perché il corpo della giovane era veramente distrutto. Adesso, dopo aver affrontato un divorzio molto duro e subito pressioni da parte della famiglia, Maria sta bene».

IN ITALIA il fenomeno dei matrimoni forzati è spesso legato a vicende giudiziarie come quella di Saman Abbas, la 18enne di origine pakistana uccisa nella notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 dai genitori e da uno zio a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Il 30 aprile sono state pubblicate le motivazioni della sentenza che ha condannato all’ergastolo i parenti della ragazza. Per i giudici del tribunale di Reggio Emilia Saman Abbas non è stata uccisa per la sua opposizione a un matrimonio combinato. Quella del rifiuto a nozze imposte che avrebbe disonorato la famiglia, per la Corte d’Assise è «una narrazione corrispondente a quella divulgata sin dall’inizio e a livello mediatico».

Tra le nove parti civili ammesse al processo Abbas c’è anche Trama di Terre, realtà nata a Imola nel 1997 dall’incontro di 14 donne provenienti da Somalia, Algeria, Italia, Marocco e Argentina. La fondatrice dell’associazione è Tiziana Dal Pra, attivista per i diritti delle donne e «femminista non pentita», come ama definirsi.

«Ho iniziato nei primi anni duemila a occuparmi di matrimoni forzati. Durante i corsi di formazione che tenevo in giro per l’Emilia Romagna ho cominciato a imbattermi nelle domande di alcune insegnanti: Ma dove vanno queste ragazze? Come mai spariscono?», dice Tiziana Dal Pra.

Per la fondatrice di Trama di Terre è cruciale spingersi oltre quello che definisce un «antirazzismo neutro», incapace di mettere al centro del dibattito le questioni di genere evitando di vittimizzare le persone migranti. «Ne dobbiamo parlare rendendo chiaro ed evidente che nei Paesi di origine le donne combattono per i loro diritti. E se il Pakistan è tra le dieci nazioni più violente contro le donne bisogna comprendere le radici del problema, senza aver paura di essere definite colonialiste o antirazziste a metà», conclude Dal Pra.

LA VICEPRESIDENTE di Fondazione Pangea Simona Lanzoni sottolinea invece la necessità di investire sulla formazione. «Le ragazze ancora oggi muoiono di matrimonio forzato quando rifiutano di volersi sposare – spiega -. Il lavoro da fare a livello di scuole, forze dell’ordine e magistratura è enorme. Come nel caso delle mutilazioni genitali femminili siamo davanti a forme di violenza collegate al mondo migratorio che rimangono poco approfondite anche nell’ambito della rete antiviolenza nonostante questa problematica esista».

«Se si facesse un’indagine nelle scuole elementari, medie e superiori su quante ragazze a un certo punto lasciano gli studi si vedrebbe proprio che ci sono delle comunità specifiche interessate da questo fenomeno. E se si facesse un lavoro di filiera per capire dove finiscono si vedrebbe che queste ragazze vanno nel loro Paese di nascita perché in qualche modo le hanno fatte sposare anche a prescindere dalla loro volontà, destinandole a una vita che le renderà subordinate per sempre», conclude la vicepresidente di Pangea.