Le condizioni dei migranti a bordo della nave Open Arms erano «critiche», sia dal punto di vista psicologico che igienico sanitario. Una situazione disperata, al punto da spingere alcune persone, giunte ormai allo stremo, a gettarsi in mare.

A raccontare l’odissea durata 19 giorni durante i quali nell’agosto del 2019 l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini impedì lo sbarco di 147 migranti tratti in salvo dalla nave Open Arms è Riccardo Gatti, presidente della ong spagnola e capo missione, nel corso del processo in corso a Palermo in cui Salvini è accusato di sequestro di persone e rifiuto d atti d’ufficio.

Il procedimento è ormai agli sgoccioli. Per il 12 gennaio è fissata l’udienza in cui il leader della Lega, oggi vicepremier e ministro delle Infrastrutture, verrà ascoltato. Nel frattempo, è la ricostruzione di quanto accadde in quei giorni a bordo della Open Arms a tenere banco. «C’era difficoltà a mantenere la calma tra i migranti, che non riuscivano a capire cosa stava succedendo e diventava sempre più difficile mantenere i rapporti di fiducia nei nostri confronti», ricorda Gatti. Dopo tre salvataggi, prosegue, «le situazioni a bordo erano critiche. Alcuni (migranti, ndr) erano stati sbarcati per casi di scabbia che non potevano essere trattati a bordo. E c’era un’emergenza al livello psicologico, che aumentava col passare del tempo a bordo».

Una delle principali difficoltà consisteva nello spiegare i motivi per cui, sebbene la nave si trovasse davanti all’isola di Lampedusa, non era possibile scendere a terra. «L’aspettativa era che fosse dato un porto di sbarco il prima possibile. Non era un’aspettativa nostra ma un’aspettativa che dipende dagli obblighi internazionali. Le convenzioni e gli obblighi in tema di soccorso in mare sono chiari e vedere che lo sbarco veniva ritardato era qualcosa di abbastanza sorprendente».

Le conseguenze dall’attesa furono inevitabili: «Ci fu chi si lanciò in mare per la totale disperazione», prosegue Gatti. «Ricordo di aver parlato un giorno con un giovane che mi disse che non lo avrebbe mai fatto perché non sapeva nuotare e poi il giorno dopo si lanciò in mare. Parlando con lo psicologo mi disse che erano tentativi di suicidio». Il salvataggio di quanti si gettarono in acqua venne effettuato «da nostro personale e anche gli agenti della guardia costiera si gettarono in mare per salvare i migranti».

Niente di quanto accadeva sulla Open Arms era però sconosciuto alle autorità italiane. «La situazione di stress a bordo era conosciuta – ricorda ancora Gatti – perché veniva comunicata giornalmente e la nostra nave, quando eravamo ormai ormeggiati fuori Lampedusa, era circondata e pattugliata da mezzi navali della Guardia costiera e della Guardia di finanza. Io stesso – prosegue il capo missione – ho parlato telefonicamente con il comandante della guardia costiera di Lampedusa facendo presente la situazione».