Con l’uscita di scena di Nikki Haley, Trump è ora senza avversari nel suo campo. Con 1060 delegati finora ottenuti, su 1215 necessari per la nomination, le primarie repubblicane sono di fatto concluse. Il Super Tuesday incorona il miliardario newyorkese. In attesa dell’investitura ufficiale, a Milwaukee, il prossimo luglio.

Le primarie democratiche, che avrebbero dovuto essere poco più che simboliche, con Joe Biden nominee in pectore fin dal loro inizio, diventano adesso il principale campo di battaglia elettorale, con la conferma, dopo l’exploit in Michigan (centomila voti), di una presenza consistente in altri sette stati di elettori “uncommitted” democratici – che non danno nessuna indicazione – decisi a far pesare nelle urne il loro dissenso, con un ostentato voto di sfida al presidente/candidato Biden per il suo sostegno “rock solid” alla guerra israeliana e il rifiuto d’imporre un cessate-il-fuoco a Netanyahu. Altri voti “uncommitted” sono previsti nelle prossime primarie, in tutti gli stati in cui quel tipo di scelta è consentito.

Alla convention di Chicago, ad agosto, ci sarà così una piccola ma battagliera pattuglia di delegati con le mani libere, che se non influiranno sull’esito finale, rappresenteranno comunque un movimento contro la guerra che, se non ascoltato dai delegati e dal nominee, troverà sicuramente seguito in settori elettorali cruciali nei distretti elettorali decisivi degli stati in bilico, dove si giocherà l’esito delle presidenziali.

L’elettorato arabo-americano, innanzitutto in Michigan, quello somalo-americano in Minnesota, a cui s’aggiungono movimenti studenteschi nelle città universitarie, organizzazioni religiose, attivisti della sinistra radicale ebraica, chiese e organizzazioni African American. La contestazione non colpisce solo Biden ma anche numerosi democratici in corsa per il Congresso e per cariche elettive statali e locali. Proposito del movimento contro la guerra è aumentare la propria rappresentanza parlamentare, per ora limitata alla battagliera Squad alla camera e all’inesauribile combattente Bernie Sanders al senato.

Il “not in my name” contro la guerra israelo-americana non è più solo un movimento di piazza. Diventa fatto politico che entra con forza nel duello Biden-Trump, condizionandone lo svolgimento e l’esito.
Il candidato repubblicano ha fiutato l’aria, decidendo, proprio dopo l’esito del Super Tuesday, di prendere per la prima volta posizione sulla guerra in corso con un perentorio «sono nel campo israeliano» seguito da un You’ve got to finish the problem, «bisogna portare a termine il problema».

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Il presidente dell’Executive Order 13769, comunemente detto Muslim Ban, la misura che di fatto chiudeva le frontiere a chi proveniva dai paesi islamici, non ha mai ovviamente cercato i voti su quel versante. Né pensa di attirare quelli eventualmente in uscita per protesta dal campo di Biden. Ma, come sa fare meglio d’ogni altro, soffia sulla polarizzazione, estremizzandola, nel tentativo di trasformare l’Election Day in un referendum sul sostegno a Israele, costringendo Biden e i democratici a scegliere anche loro. Così, nella narrativa di Trump, la stessa richiesta di un cessate-il-fuoco può diventare, nell’esasperazione dello scontro, un colpo inferto alla «relazione speciale» con Israele.

Biden contrasta questo tentativo spostando il campo di battaglia sul terreno della sopravvivenza stessa della democrazia, che sarebbe messa in pericolo esistenziale da una vittoria di Trump. Proponendo il voto di novembre come un referendum sulla democrazia, il presidente candidato conta di convincere alla fine anche i suoi attuali critici, compresi gli elettori più riluttanti, se non altro come il minore dei mali. In questa operazione è contemplata la ricerca di consensi nell’area moderata e centrista dell’elettorato repubblicano, che finora ha sostenuto la candidatura di Nikki Haley, una parte ormai minoritaria del Grand Old Party ma pur sempre importante – in certi distretti elettorali cruciale – nella sfida di novembre. Ostentatamente, dopo il ritiro di Haley, Biden si è rivolto ai suoi elettori dicendo che «c’è posto per loro nella mia campagna elettorale» e sostenendo che «Trump ha messo in chiaro che lui non li vuole», quegli elettori.

Nei rispettivi campi i due contendenti hanno dunque problemi analoghi nella costruzione di una coalizione elettorale politicamente composita che sostenga le loro candidature in un territorio variegato come quello americano. Se Biden è “scoperto” a sinistra, Trump lo è al centro, dove la vecchia guardia del GOP continua a remargli contro. Anche sostenendo candidati alla camera e al senato che non sono nella linea Make America Great Again (Maga). Il ritiro del sostegno di Charles Koch a Nikki Haley, probabilmente una delle ragioni principali della sua rinuncia a continuare la corsa, consente al magnate del petrolio di dirottare i fondi verso candidati anti-Maga in corsa per il senato e per la camera.

Il collegamento tra la corsa presidenziale e le candidature parlamentari e locali ha grande importanza, specie nell’eventualità dell’elezione di un sovversivo come Trump, in modo che possa almeno essere bilanciata e contenuta da un congresso a maggioranza democratico. Le primarie non hanno più storia, già si guarda al 5 novembre.