«Dopo il pranzo hanno portato dell’acqua in una bacinella d’oro con degli asciugamani simili ai tovaglioli e mi ci sono asciugata le mani con grande rammarico. Poi hanno servito il caffè in tazzine di porcellana su piattini d’oro», scrive Lady Mary Wortley Montagu. In Letters from Turkey, del 1763 (ripubblicato nel 2012 con il titolo The Turkish Embassy Letters), l’aristocratica consorte dell’ambasciatore d’Inghilterra presso la Sublime Porta (1716-’18) descrive in un interessante passaggio la sua visita nell’harem alla sultana Hafife, già favorita di Mustafa II, sultano deposto dal fratello Mahmud I. Al banchetto offerto in onore della Lady vengono serviti cinquanta piatti di carne su una tavola apparecchiata con magnificenza: coltelli d’oro con manici impreziositi dai brillanti, tovaglia e tovaglioli di seta con ricami a fili d’oro. Anche il succo di frutta, bevuto durante il pasto, viene versato nelle coppette di porcellana con coperchi e piattini d’oro. A chiusura di quel lunghissimo e lauto pasto non può mancare il caffè, che nel Settecento è una bevanda di successo ormai da almeno due secoli. Nel XVI secolo il «frutto magico» che cresceva spontaneamente nelle foreste dell’Etiopia (a tutt’oggi tra i maggiori produttori mondiali di caffè, e il principale in Africa), attraverso la città di Mokha nello Yemen, che allora (e fino al 1918) era sotto la dominazione turca (della storia del caffè yemenita si parla nel romanzo The Monk of Mokha di Dave Eggers, 2018), giungeva a Costantinopoli e riscuoteva un immediato successo sia nel vasto territorio di conquista degli Ottomani che nelle capitali europee.

Immagine di copertina del catalogo della mostra Coffee Break: the Adventure of Coffee in Kütahya Tiles

Nella mostra Coffee Break: the Adventure of Coffee in Kütahya Tiles and Ceramics, esposta permanentemente al Pera Museum di Istanbul, viene esplorata la storia di questa bevanda, insieme alle sue implicazioni sociali e alle relazioni tra i diversi rituali, con una serie di pezzi di ceramica di Kütahya, datati XVIII-XX secolo e provenienti dalle collezioni della Suna and Inan Kıraç Foundation, istituita a Istanbul nell’ottobre 2003 da Suna, Inan e Ipec Kıraç. Kütahya è una città della Turchia occidentale ai margini dell’altopiano anatolico, lungo le rive del fiume Porsuk: gli antichi greci e poi i romani l’avevano chiamata Cotyaeum.

Le sue vicende storiche sono documentate anche in età bizantina, ma ciò che l’ha resa famosa è l’arte della ceramica smaltata tradizionale, sviluppatasi sulle orme di quella di Iznik. Se, tuttavia, la produzione di Iznik era direttamente collegata alla corte dei sultani, che commissionava piastrelle per architetture sacre e profane, nonché oggetti d’uso quotidiano e decorativi influenzandone anche lo stile, la ceramica di Kütahya veniva considerata più popolare benché nella fattura non fosse meno raffinata. Proprio la fine dell’impero ottomano, che determinò anche il declino della produzione ceramica di Iznik, portò alla ribalta i laboratori di Kütahya e i loro manufatti: ciotole, brocche, piccoli calici, bruciatori per incenso, tazzine per caffè, piatti decorati a mano su fondo bianco con pennellate azzurre, viola, rosse, verdi, gialle, blu cobalto che formano foglie stilizzate, uccelli, fiori intrecciati in una continuità armoniosa.

In Coffee Break se ne possono vedere diversi esemplari. Sono due opere, in particolare, a sintetizzare il concept stesso dell’esposizione, sebbene molto diverse tra loro: il video Voronoi (2019) del collettivo artistico oddviz e il dipinto Coffeehouse realizzato nella seconda metà dell’Ottocento dal pittore armeno-ottomano Mıgırdiç Civanyan, noto soprattutto per le vedute del Bosforo. Ispirandosi alla funzione matematica che permette la scomposizione digitale degli oggetti modellati, oddiz (Çagrı Taskın, Serkan Kaptan, Erdal Inci), insieme all’audio designer Gurur Gelen, ha selezionato 150 antichi oggetti della collezione di piastrelle e ceramiche della fondazione, che ha modellato in 3D, e digitalizzato con la fotogrammetria, per restituirli alla contemporaneità attraverso il linguaggio digitale del video. Alcuni di questi oggetti sono simili a quelli raffigurati nel dipinto di Civanyan, che evoca l’atmosfera di un’antica kahvehane, caffetteria.

«Nel 1554 a Istanbul avvenne una rivoluzione nel campo della cultura gastronomica: fu aperta da un aleppino di nome Sems la prima kahvehane…, seguita immediatamente da quella di un damasceno di nome Hakam – scrive Maria Pia Pedani in La grande cucina ottomana. Una storia di gusto e cultura (il Mulino, 2012) –. La nera bevanda era già conosciuta, ma relegata, per i suoi poteri eccitanti, nelle tekke (conventi) dei dervisci o nelle alte sfere della società. Con questa novità il caffé divenne invece improvvisamente una bevanda famosa, apprezzata dal popolo, dai militari e soprattutto dai buontemponi e letterati che, con due secoli di anticipo sui nostri illuministi, si riunivano nelle nuove botteghe per leggere, declamare poesie e giocare a scacchi o a tric trac. Per cercare di ridurre gli assembramenti e risolvere pragmaticamente la questione, come usavano fare gli ottomani, il sultano Süleyman I impose immediatamente un’alta tassa sul consumo di tale prodotto, detta resm-I bid’a, la tassa dell’innovazione, che per un certo tempo trasformò le caffetterie in luoghi di ritrovo destinati solo a gente ricca». Malgrado la tassa e l’ostracismo dei religiosi che consideravano il caffé alla stregua «delle droghe che annebbiano il cervello e rendono folle l’individuo», alla fine del Cinquecento si potevano contare circa seicento caffetterie nei quartieri di Istanbul. La diffusione in Europa partì da Venezia con le prime botteghe da «caffé e acquavite» aperte intorno al 1640; successivamente fu la volta delle coffeehouses in Inghilterra, a Parigi e Vienna. Però, come scrive Théophile Gautier nel 1852 a proposito della sua esperienza in una caffetteria frequentata da marinai presso la scala di Yeni Djami a Istanbul, «il caffè che bevvi era certamente migliore del nero decotto del miglior locale di Parigi».

Non è questione solo di gusto, nella cultura dell’impero ottomano il caffè ha avuto un ruolo sociale significativo, spesso associato al fumo. «Fumare come un turco» è un vecchio modo di dire, si sa. Al Pera Museum, tra l’altro, oltre a tazzine di fogge diverse ci sono posacenere, portasigarette e vezzosi portafiammiferi. Un altro rito, poi, ero bere il caffè nell’hammam, tra gli aspetti più piacevoli dell’esperienza del bagno turco, come precisa un pannello del museo annesso alla restaurata Zeyrek Cinili Hamam di Istanbul: «Ai clienti venivano serviti caffè, sciroppi di frutta e dolciumi nel frigidarium, dopo un bagno caldo. L’addetto al caffè (kahveci) preparava il caffè in un angolo dell’ambiente freddo. I clienti si sdraiavano su lunghi divani chiamati sedir e si rilassavano al suono dell’acqua della piccola fontana di marmo sotto la maestosa cupola».

Ma, certamente, il rituale più affascinante rimane quello della lettura dei fondi di caffè, capovolta con la mano sinistra la tazzina sul piattino: appare anche nella video installazione Memory of Square (As Seen From Inside), realizzata nel 2005 dall’artista turca Gülsün Karamustafa nelle collezioni di Istanbul Modern. I residui di caffè sulla tazzina rappresentano il futuro, quelle sul piattino il presente: al sapore del caffè, insieme alla sua fragranza persistente di tostatura fresca, e a un pizzico di sana irrazionalità, il compito di guidare alla scoperta di un ipotetico domani.