L’intesa nella maggioranza ieri sera era vicina: il reddito di emergenza» sarà solo un contributo alla povertà per due o tre mesi, comunque non strutturale. È così escluso che almeno 2,5 milioni di poveri, precari e invisibili già esclusi dai bonus a tempo per le partite Iva, e dalle casse integrazioni, si abituino a un reddito proprio quando la crisi sociale diventerà più dura dall’estate. A questa chiarezza di idee si sta arrivando dopo che il segretario Pd Nicola Zingaretti ha parlato di un «reddito universale», mentre Beppe Grillo ha strologato su un «reddito di base universale». Nulla di tutto questo: le tutele restano precarie, mentre calano i fondi annunciati.

Il tre aprile scorso la ministra del lavoro Nunzia Catalfo parlava di circa «tre miliardi» per un «reddito di emergenza» (Rem) destinato a «circa tre milioni di cittadini». Più di un mese dopo, a poche ore si parla di un miliardo a 2,5 milioni di persone. Così impostata, sempre che sia confermata, si tratta di una riduzione drastica del finanziamento di un sussidio residuale, tra i 400 e gli 800 euro a famiglia, non a individuo, distribuito per almeno due mesi ma non più di tre, a chi ha un reddito Isee non superiore a 15 mila euro. Fondi che non raggiungeranno una platea tutta da definire e questo porterà a nuove esclusioni. In questi contorcimenti continua a mancare un’idea di giustizia sociale. Si preferisce restare nella micropolitica neoliberale dell’assicurazione sociale contro un danno. Una volta scaduta l’assicurazione, la povertà sarà abolita per decreto. E, magicamente, si tornerà a lavorare nella crisi più grave da un secolo. E torneranno a lavorare anche coloro che sono fuori dal mercato del lavoro. È una tragica sottovalutazione della crisi.O un’allucinazione.

«Resta incomprensibile il rifiuto di estendere significativamente il reddito di cittadinanza trasformandolo in una misura strutturale di reddito perlomeno minimo e garantito, svincolato dalle condizionalità esistenti, nel rispetto della dignità della persona – sostiene Sandro Gobetti del Basic Income Network Italia – Il risultato è una misura tampone che si confonde tra le altre nella giungla del Welfare all’italiana». «Le coperture sono scarse o inesistenti per categorie come quelle degli stagionali, dello spettacolo, per il lavoro autonomo – sostiene Livia Ricciardi (Cisl) – le coperture sono scarse o inesistenti per categorie come quelle degli stagionali, dello spettacolo, per il lavoro autonomo». Perplessità sulla concezione della misura sono state espresse dal Forum disuguaglianze e diversità e dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile che criticano «la minimizzazione del rischio di irregolarità procedurale», «il contenimento della spesa pubblica» e le prevedibili difficoltà di accesso alla misura.

Il problema è il seguente: fissare un limite patrimoniale può infatti escludere persone che lo superano anche di una manciata di euro, ma soprattutto esclude tutti quelli che vivono nell’economia informale e sommersa. Diversi ministri (Provenzano, Catalfo) si sono fortunatamente ricordati di questa economia che produce il 12% del Pil in Italia (lo dice l’Istat). E’ evidente che gli strumenti ordinari fiscali statistici e amministrativi sono del tutto inadeguati per individuare queste persone che sono in maggioranza obbligate a restare al nero da un sistema fondato su questa forma di (auto)sfruttamento. Per questa ragione si è discusso in queste settimane di chiedere un’autocertificazione e rinviare i controlli della guardia di finanza a “Dopo” (ad esempio lo ha detto l’attuale portavoce dei Cinque Stelle Vito Crimi). Si tratta di un tentativo di fare emergere il “lavoro nero”. Ma se lo si volesse davvero fare bisognerebbe assicurare una sanatoria, e la denuncia eventuale dei datori di lavoro che hanno costretto i lavoratori in questa situazione. In più si dovrebbe assicurare un vero reddito di base adeguato, anche superiore agli importi incerti ricevuti in nero. Non è infatti escluso che le persone che scelgono di denunciare il proprio sfruttatore perderanno subito il loro lavoro, Ma non è certamente questa la direzione che sta prendendo il dibattito. Esiste una campagna moralistica tesa ad attribuire la responsabilità di questa situazione agli stessi lavoratori in nero. Non solo non pagano le tasse, ma ora ricevono i “ricchi” sussidi dallo stato. Ponendo un limite patrimoniale e reddituale da 15 mila euro di Isee si escludono tutti coloro che non possono dimostrare di avere guadagnato alcunché. Gli invisibili, dunque, resteranno tali per sempre.

Crescono invece le misure ornamentali e per specifici settori di mercato. Sono interessanti i casi degli incentivi fino a un massimo di 500 euro per il rimborso dell’acquisto e la condivisione di bici e monopattini elettrici in città. Una misura simbolica per alleggerire la mobilità e l’acquisto di un mezzo usato da una classe metropolitana. Si potrà avere il «trottinette», ma non un reddito di base per pagare l’affitto. Non solo: con il «bonus vacanze», un tax credit fino a 500 euro, le stesse famiglie potranno andare in vacanza, spendendo negli alberghi. Questa immagine grottesca della vita nella crisi è speculare a un’idea categoriale del welfare pensato in maniera subalterna all’impresa. La ministra di famiglia e pari opportunità Elena Bonetti chiede bonus per le famiglie e ha protestato: «Non ci sono risorse adeguate per i congedi parentali e i voucher baby-sitter. Credo sia un errore».

In questa cornice i Cinque Stelle vogliono che il Rem sia erogato dall’Inps, come gli altri bonus, e sia strutturale; per Italia Viva il Rem è un’ «una tantum» di sopravvivenza e chiede che siano i comuni a distribuirlo, come con i 400 milioni nei pacchi viveri. Così si stanno prosciugando le risorse in un maxi-decreto da 55 miliardi. La dispersione delle risorse, e persino il rischio di moltiplicazione degli enti gestori, rafforzano il governo dei poveri, non l’emancipazione dalla povertà.