Un anno di pandemia ci lascia in eredità quasi 3 milioni di morti nel mondo (più di 100mila solo in Italia), e più di 120 milioni di persone infettate, ciascuna con la sua storia (in alcuni casi terribili). Per molte di queste persone, le sequele fisiche della malattia si trascinano per settimane o mesi, e ancora non è neppure del tutto chiaro perché. Se questo non fosse già abbastanza tragico, una conseguenza più impalpabile ma altrettanto reale che ci rimane da gestire è quella psicologica. Le nostre vite sono drammaticamente cambiate: una miscela di ansia, paura, incertezza, rabbia, impotenza ha invaso le nostre esistenze, ci ha costretto a cambiare le nostre abitudini, ad allontanarci da familiari e amici, a distorcere le nostre dinamiche lavorative e quelle sociali. Ciascuno e ciascuna di noi lo ha gestito come ha potuto, ma di sicuro per nessuno è stato facile.

Il disagio psicologico, rispetto alla malattia fisica, ha però un livello di difficoltà aggiuntivo: l’atavico stigma che gli è associato e che fa sì che sia la società che noi stessi tendiamo a sottovalutarne l’importanza, a trascurarlo e a vergognarcene. E in questo caso purtroppo non basta una mascherina o un vaccino per proteggerci.

LA SETTIMANA SCORSA a Madrid Íñigo Errejón, un deputato di Más País, un piccolo partito di sinistra nato da una scissione di Podemos, stava difendendo con veemenza nel parlamento spagnolo la necessità di dedicare maggiori risorse pubbliche alla salute mentale, e che i servizi psicologici entrassero nel sistema di salute pubblico. Un deputato del Pp non ha trovato niente di meglio che gridargli «Vai dal medico», come a dire che era un pazzo: cioè banalizzando precisamente il problema che coraggiosamente Errejón aveva messo al centro del dibattito. Per tutta risposta i deputati di maggioranza (compreso il presidente Sánchez) hanno applaudito Errejón, e il tema è stato discusso su tutti i media per due giorni (e il deputato popolare si è dovuto scusare).

Ma quello che può sembrare un insignificante aneddoto parlamentare, è in realtà la spia dell’inadeguatezza della società a cogliere la gravità e la centralità di questo problema, neppure dopo che, collettivamente, siamo stati tutti sottoposti a uno stress, letteralmente, epocale. Può forse sembrare paradossale, ma se la società nel suo insieme non è ancora preparata a gestire l’insorgere di patologie legate alla salute mentale, non lo è neppure quella fetta della popolazione che invece questi strumenti li dovrebbe avere: il mondo accademico.

PROPRIO PER QUESTO l’articolo che la settimana scorsa la giornalista Virgina Gewin firmava sulla rivista scientifica Nature ha scatenato un putiferio: «La sindrome del burnout dilaga nel mondo accademico» era il titolo. Su queste pagine avevamo già scritto tempo fa di quella che chiamavamo la «tristezza del dottorando», l’altissima incidenza di malattie mentali fra giovani studiosi e studiose per la precarietà, l’incertezza e un sistema fondamentalmente ipercompetitivo ma basato spesso su dinamiche di potere ingiuste e prepotenti. Negli ultimi tempi al tema sono stati dedicati moltissimi studi e ricerche. La stessa Nature a novembre aveva pubblicato i risultati di una ricerca su quasi 8000 postdoc, la figura di giovani ricercatori che sono al primo passo della carriera accademica dopo il dottorato: parlavano del sentirsi sottoposti a un’enorme pressione, di ore extra, di stipendi bassi, di grande insicurezza lavorativa. Per non parlare della discriminazione sessuale (quando non direttamente di molestie sessuali), nel caso delle ricercatrici.

LA COSIDDETTA «sindrome dell’impostore» (che consiste nel pensare di non valere davvero, ma di star mentendo agli altri sulle proprie capacità) è diffusissima fra i giovani ricercatori, ma soprattutto fra le ricercatrici, che spesso aggiungono anche il senso di colpa sociale per non essere brave madri (cosa che più difficilmente accade ai padri). E spesso mantenere il ritmo scientifico interferisce con il tempo necessario a creare e prendersi cura di una famiglia, e a trovare una stabilità.

SU QUESTA REALTÀ già difficile, la pandemia ha inciso impietosamente. Secondo alcuni sondaggi citati nell’articolo di Nature, nel 2020 il 70% degli accademici si sentiva stressato (contro il 32% dell’anno precedente), mentre il 35% si sentiva arrabbiato (era il 12% l’anno prima). Ma l’aspetto interessante che questo e altri analoghi studi mettono in rilievo è che, proprio come nel resto della società, gli effetti della pandemia non sono stati uguali per tutti. Indovinate un po’: il burnout (l’esaurimento) lo avevano vissuto tre donne su 4 (nel 2019 erano solo 1 donna su 3), mentre solo 6 uomini su 10 si sentivano esauriti. Per 8 donne su 10 il carico di lavoro è aumentato (è accaduto a 7 uomini su 10). Per tre quarti delle donne (e solo due terzi degli uomini) era inoltre peggiorato l’equilibro fra vita personale e lavoro.

COME IN OGNI ALTRO ambito professionale, anche le ricercatrici e le docenti universitarie hanno dovuto farsi carico maggiormente del grosso dei compiti domestici, delle lezioni dei figli online, delle sfide logistiche e familiari a cui lunghi mesi di isolamento, telelavoro, e quarantene ci hanno sottoposto. E pertanto per loro le difficoltà sono state maggiori. Le ore di lavoro sono aumentate per tutti, ma chi doveva insegnare ha anche dovuto affrontare un aumento significativo del tempo di preparazione per le lezioni online. E non solo: «La pandemia ha esacerbato le disuguaglianze esistenti», spiega Mangala Srinivas, una specialista di immagini cliniche intervistata da Nature: quindi l’esaurimento è più elevato in tutti i gruppi marginalizzati, donne, studenti internazionali, persone LGBT+, che si aggiunge alla maggiore incidenza di depressione e ansia già registrata in questi gruppi di ricercatori.

Vero è che è aumentata l’accettazione di orari flessibili (era ora), ma questo non è sufficiente: «L’evidenza di leadership empatica a livello istituzionale è scarsa» nelle università, dice un altro intervistato, Richard Watermeyer dell’università di Bristol. Non basta infatti dire, come si sente sempre più spesso negli ambienti accademici più illuminati: prenditi cura di te stesso, lasciati un giorno senza meeting per poter lavorare. Nessuno di questi consigli diminuisce la mole di lavoro, avverte Watermayer. Anche un altro rapporto delle US National Academies of Sciences, Engineering and Medicine dell’inizio di quest’anno lanciava un allarme inquietante: i problemi di salute mentale fra gli studenti di dottorato non sono mai stati così alti come nel 2020.

E CON LA CRISI IN ARRIVO, la situazione non migliorerà: le università dovranno tagliare budget, la precarietà accademica aumenterà e, passato il momento in cui tutti gli occhi sono puntati sulla ricerca scientifica, l’interesse per questa categoria di lavoratori tornerà a scemare. Alcuni governi, come quello spagnolo (e sembra l’intenzione anche di quello italiano), hanno deciso di invertire la tendenza storica e aumenteranno in maniera decisa gli investimenti in ricerca, ma molte università nel mondo dovranno fare i conti con finanziamenti più limitati.

L’emergenza salute mentale resterà dunque centrale, per l’accademia come per tutta la società: sapremo cogliere l’opportunità di una maggiore attenzione verso questi temi per ripensare come affrontarli?