Hollis ha il corpo deformato da uno sviluppo asimmetrico della colonna vertebrale che lo costringe a camminare curvo mentre sulla sua schiena è cresciuta una gobba che gli provoca forti dolori e lo spinge ad assumere ogni giorno degli oppiacei. È cresciuto lontano da tutti, in mezzo ai boschi del West Virginia e accanto a un padre che al richiamo dell’alcol alternava «la chiamata» di Gesù per predicare tra la gente delle sue montagne. Fin da piccolo, al mondo che sentiva essergli negato Hollis ne ha contrapposto un altro, creato dalla sua chitarra e dalle sue canzoni. Su questa via aveva incontrato anche Angela, il suo grande amore, che malgrado lo abbia ormai lasciato da tanto tempo per lanciarsi nello star system del rock, continua ad alimentare il proprio successo con i brani che proprio Hollis scrive per lei ricevendo in cambio di che vivere in una vecchi casa in riva ad un ruscello. Un equilibrio incerto, segnato dal dolore e dalla perdita, destinato ad essere travolto quando una fuga di sostanze tossiche da quel che resta dell’industria estrattiva locale avvelena i corsi d’acqua della regione. Per Hollis, Angela e un pugno di personaggi allo stesso tempo disperati e innocenti verrà il tempo della resa dei conti.

Affascinante esordio narrativo di Jordan Farmer, uno scrittore nato e cresciuto in una cittadina di duemila anime del West Virginia, Un diluvio di veleno (Jimenez, pp. 266, euro 18, traduzione di Gianluca Testani) indaga con grande determinazione e una lingua ricca e sicura l’intreccio tra i corpi e l’arte, il sentimento della diversità e le incertezze dell’amore nello scenario naturale e umano dell’Appalachia, la vasta regione montuosa della costa orientale che dal sud dello Stato di New York giunge fino all’estremo nord di Georgia e Alabama. Un territorio segnato dalla povertà, dall’inquinamento e dai pregiudizi attraverso i quali si guarda ai suoi abitanti.

Il romanzo si muove su due piani: da un lato il modo in cui i protagonisti conducono le proprie vite, dall’altro il contesto sociale e culturale che li circonda e lo sguardo che su di loro viene proiettato dal resto della società. Cosa le interessava di più?
A partire dal protagonista, Hollis, volevo scrivere di qualcuno che vivesse in un corpo «non convenzionale». Uso questo termine non a caso, perché è così che mi definirei. Sono nato con un disturbo alle ossa che ha fermato la mia altezza da adulto a poco più di un metro e mezzo e mi ha obbligato ad indossare a lungo dei tutori per le gambe fino a quando non mi sono sottoposto a un intervento chirurgico correttivo. Raramente ho letto storie di persone come me, e quando è accaduto si trattava di racconti che non si concentravano sull’amore, l’arte, la famiglia, il lavoro, il sesso, la politica o altri temi della vita quotidiana. Perciò ho voluto scrivere di un uomo così, ma che si misura con qualcosa di più che la sua sola condizione fisica. Ho scelto che fosse un artista e che riflettesse sull’influenza che il suo stato ha sulla sua arte. Dello sguardo che la società gli rivolge, mi interessava indagare come i pregiudizi che lo circondano possano incidere sulla fiducia di Hollis in se stesso, come uomo e artista.

Hollis immagina che il suo aspetto incarni anche il modo in cui la gente delle montagne, i cosiddetti hillbilly, è rappresentata nella cultura popolare: un esempio su tutti, «Un tranquillo weekend di paura» (Deliverance), il film del 1972 di John Boorman.
In realtà ho scelto che fosse il modo in cui ritraevo Hollis, una persona come le altre indipendentemente dalle condizioni del suo corpo, a confutare gli stereotipi sugli hillbilly che dominano la cultura popolare americana. Le sue condizioni di salute non hanno nulla a che fare con il luogo in cui vive. Detto questo, il romanzo è attraversato anche dalla riflessione sul modo in cui questi luoghi e i loro abitanti sono spesso percepiti e descritti. Un altro personaggio, Russell, che guida una punk band che si ispira ai film dell’orrore, spiega a Hollis che per lui l’Appalachia è davvero il «luogo del grottesco». I due discutono anche del libro di Anthony Harkins, Hillbilly: The Cultural Biography of an American Icon, uno studio che riflette sul modo in cui la caricatura dei «montanari» viene utilizzata sia in termini negativi che come sinonimo di eroismo e valori patriottici a seconda del contesto sociale e del momento politico che vivono gli Usa.

L’altro elemento su cui si concentra il romanzo, l’inquinamento, ricorda come questi territori siano stati spesso trattati alla stregua di «colonie interne», da sfruttare senza curarsi delle conseguenze.
Il West Virginia come molte altre zone degli Appalachi hanno una lunga storia di sfruttamento alle spalle. L’isolamento fisico di questi territori ha reso fin troppo facile per il capitalismo degli esordi creare un sistema sociale e produttivo nel quale gli unici lavori disponibili fossero attività nocive per l’ambiente e pericolose per l’uomo come l’estrazione del carbone. In origine, i minatori non venivano nemmeno pagati in dollari, ma con un buono che poteva essere speso solo nei negozi di proprietà della stessa azienda mineraria e dove i prezzi erano sempre gonfiati. E anche quando la gente del posto ha cercato di cambiare questo sistema, hanno purtroppo prevalso gli interessi degli industriali e di coloro che avevano così a lungo derubato delle sue risorse e inquinato l’Appalachia. E, in un certo modo, questo sfruttamento continua ancora oggi con la crisi degli oppioidi che vede un’enorme diffusione di farmaci pericolosi proprio presso la popolazione di questa zona economicamente depressa.

La pubblicazione di «Hillbilly Elegy» di J.D. Vance nel 2016 sembra aver rilanciato il dibattito sulle condizioni di vita negli Appalachi sebbene con dei tratti improntati al moralismo. Cosa ne pensa?
La mia preoccupazione con libri come Hillbilly Elegy è che non affrontano gli elementi sistemici che determinano la povertà di queste zone. Raccontando la storia di qualcuno che provenendo da tale ambiente ce l’ha comunque fatta, si lascia credere che lavorando sodo si può arrivare dove si vuole, mentre invece la realtà ci parla di salari stagnati, dell’automazione che sta cancellando i posti di lavoro e dell’istruzione superiore che è talmente costosa che vi si accede solo con prestiti che le persone continuano poi a pagare per anni. Chi ha letto quel libro magari ha pensato «per fortuna io non sono un hillbilly», senza capire che i problemi che affliggono la gente degli Appalachi si sono nel frattempo trasformati in quelli dell’intera classe operaia e della classe media americane.

L’intreccio tra la musica e la vita dei protagonisti è al centro del romanzo. Viene da pensare a figure tormentate come Johnny Cash e Hank Williams, noto come «the Hillbilly Shakespeare», cresciuti nel Sud o in queste stesse zone.
Mentre scrivevo di Hollis e di Angela avevo in testa un mix tra i primi punk e i cantanti country: in ogni caso delle figure di outsider. Angela è una ragazza di campagna che ci si aspetta canti come Loretta Lynn o Patsy Cline, mentre vuol essere come Joan Jett o Debbie Harry. Hollis scrive canzoni che funzionano alla radio, ma il suo vero stile è più eclettico e sperimentale, qualcosa come un Tom Waits influenzato dal country.