I negoziati tra i Talebani e i rappresentanti del governo e della società afghana, i primi di una guerra lunga e sanguinosa, potrebbero cominciare il 16 agosto.
L’ultimo ostacolo è stato rimosso dai 3.400 delegati della Loya Jirga, la grande assemblea che si è tenuta a Kabul dal 7 al 9 luglio, indetta in fretta e furia il 29 luglio dal presidente Ashraf Ghani per uscire dall’impasse in cui si era ficcato a causa dei pasticci dell’accordo tra Talebani e Usa firmato a Doha il 29 febbraio.
Quell’accordo, da cui era stato escluso il governo di Kabul, prevedeva uno scambio di prigionieri: 5.000 Talebani in cambio di 1.000 governativi.

Atto di fiducia reciproca, preliminare al negoziato più difficile, quello intra-afghano. A fine luglio Ghani ne aveva rilasciati 4.600, ma non gli ultimi 400: «sono accusati di crimini troppo gravi, non ho l’autorità per liberarli», così Ghani, che ha pensato di delegare la decisione ai membri della Loya Jirga, costata più di 3 milioni e mezzo di euro e organizzata nel bel mezzo della pandemia. Come da previsione, i delegati e le delegate hanno dato via libera al rilascio degli ultimi 400 detenuti della lista talebana – pur senza ricevere informazioni sui crimini di cui erano accusati o per i quali erano stati condannati -, anche se a certe condizioni: un cessate il fuoco immediato e permanente, garanzie internazionali, monitoraggio dei detenuti liberati, rispetto delle conquiste sociali e politiche degli ultimi anni, salvaguardia della Costituzione (tranne eventuali emendamenti).

La mossa di Ghani ha funzionato. Ma il presidente ha dovuto imbarcare nell’iniziativa Abdullah Abdullah, l’eterno rivale e sfidante, da maggio alla guida dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organo che dovrà negoziare con i Talebani. Un negoziato che, a giudicare dai personaggi di spicco presenti alla Loya Jirga, in primo luogo l’ex presidente Hamnid Karzai, gode del consenso di gran parte dell’establishment politico. Oltre che degli Stati Uniti, che nelle ultime settimane hanno esercitato pressioni crescenti sia sui Talebani sia sul governo di Kabul affinché rispettassero il piano delineato da Washington.

Non è un caso che pochi giorni fa il presidente Trump abbia potuto annunciare che i soldati americani, già passati dai circa 14.000 dello scorso febbraio a 8.500 di oggi, saranno meno di 5.000 entro novembre, in tempo per le elezioni presidenziali americane.

Numeri confermati dal segretario alla Difesa Usa, Mark Esper, proprio nei giorni della Loya Jirga. I delegati, in gran parte gli stessi di quella organizzata con successo da Ghani lo scorso maggio, sono stati posti di fronte a un quesito tartufesco. In soldoni potevano scegliere tra «pace (rilascio dei detenuti) o guerra (non rilascio)». La dichiarazione finale in 25 punti invoca la pace e una tregua permanente, ma a scapito delle richieste di giustizia per i crimini passati (a dispetto di una vaga formula sul rispetto della volontà dei famigliari delle vittime).

I pochi eterodossi hanno passato guai: Belqis Roshan, combattiva deputata della provincia di Farah, è stata sbattuta in terra da una funzionaria perché mostrava un cartello contrario alla liberazione, per poi essere apostrofata in pubblico come «prostituta» da un altro delegato.

Ghani e Abdullah hanno condannato l’episodio, ma pensano soprattutto a incassare il successo della Loya Jirga e a preparare le prossime mosse. Così i Talebani, che hanno contestato la legittimità e l’opportunità della jirga, per poi salutare l’esito finale con evidente soddisfazione.  I colloqui potrebbero cominciare il 16 agosto a Doha, e forse proseguire in Germania o Norvegia.