Via il ministro della Difesa Awad Ibn Auf, uomo forte del colpo di mano militare che ha deposto e messo agli arresti il presidente al Bashir giovedì scorso. Via anche il generale Salah Gosh, ancora più inviso ai dimostranti perché a capo del famigerato National Intelligence and Security Service (Niss). Via anche il coprifuoco notturno. E fuori i prigionieri politici, inclusi i manifestanti arrestati a migliaia fino a qualche giorno fa.

Sembrano aperture vere, quelle messe sul piatto dalla giunta militare che ha preso il potere in Sudan, di fronte alla risolutezza con cui i manifestanti scesi nelle strade per quattro mesi di fila hanno mantenuto viva la mobilitazione. Sentendosi scippati di una vittoria che in cuor loro sapevano di aver più che meritato, al termine di una lotta spinta dalla severa crisi economica in corso e caratterizzata dal protagonismo di vasti settori della società, prime fra tutte le donne, che in questi ultimi 30 anni – tanto è durata la presidenza di Omar al Bashir, con progressivo scivolamento sulle posizioni dei Fratelli musulmani – non hanno goduto di molta visibilità.

Ma c’è un grosso ma: resta inevasa la richiesta di trasferire subito il potere a un governo civile, anziché passare attraverso due anni di dittatura militare prima che sia possibile il solo pensare a libere elezioni. Sia l’Associazione dei professionisti (Spa) che guida il movimento nelle piazze sia la coalizione Sudan Call che raggruppa 22 partiti di opposizione non sembrano per ora disposti a transigere su questo. Quindi no al Consiglio militare che ora dà le carte a Khartoum e in cui sembra prevalere la componente islamista dell’esercito. Niente ruoli di responsabilità per soggetti organici al vecchio sistema, come appunto il vicepresidente Awad Ibn Auf che ha fatto il primo clamoroso passo indietro. Seguito a ruota dal generale Gosh, i cui uomini fino all’ultimo hanno provato a intimidire la piazza con infiltrazioni e raid a mano armata. Nei giorni precedenti al golpe si sono registrate almeno 16 vittime, tra dimostranti e militari passati dall’altra parte della barricata.

Che la situazione negli apparati di sicurezza sia quanto mai fluida lo dimostra il modo in cui le Rapid Support Forces. gruppo paramilitare fino a ieri controllato dal Niss, si sia smarcato dal percorso indicato all’inizio da Ibn Auf e abbia orientato la sua sostituzione con il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan. Che è il classico volto “presentabile” da spendere in una situazione di difficoltà: non sembra essere invischiato nelle pieghe più criminose del regime, ma neanche sembra voler cedere o almeno accorciare il mandato dell’esercito. Con la scusa di garantire «ordine e sicurezza» e la promessa di rispettare i diritti umani. Detto questo, ora Burhan chiede cortesemente ai manifestanti di smobilitare il sit-in che ancora ieri è proseguito di fronte alla sede delle Forze armate. Colloqui tra esponenti del Consiglio militare e del movimento sarebbero in corso mentre scriviamo.

Molti si chiedono se al Bashir potrà a questo punto essere consegnato alla Corte penale internazionale che lo ha condannato per i crimini di guerra in Darfur. Ma i nuovi padroni delle sorti del Sudan sembrano escluderlo: meglio un processo fatto in casa.