Un 27 di giugno di quarant’anni fa, assediato da una ormai endemica crisi economica e sociale, temendo che la situazione gli scappasse di mano, il presidente Juan María Bordaberry, con l’appoggio delle Forze Armate, sciolse il Parlamento, creò un Consiglio di Stato con funzioni legislative e amministrative, mise il potere giudiziario sotto stretta sorveglianza dell’Esecutivo e consegnò la società civile in mano a militari e polizia. L’Uruguay andava incontro ad una delle stagioni più cupe della sua storia.

Ad ogni modo, vuoi per l’assenza di quegli spettacolari bombardamenti che di lì a breve avrebbero raso al suolo un’ala del palazzo presidenziale di Santiago del Cile, vuoi per mancanza di un primo ministro immolatosi, con elmetto in testa, presidiando le barricate della democrazia, vuoi per l’assenza di stadi ricolmi di detenuti politici davanti alle telecamere di tutto il mondo, il golpe uruguaiano non turbò più di tanto i sonni della comunità internazionale. Nei tragici fatti di Montevideo c’era ben poco di quella drammaturgia dalle tinte forti dell’imminente golpe cileno che di lì a breve avrebbe commosso le socialdemocrazie di tutto il mondo, con i propri romantici rivoluzionari a debita distanza, per non sporcarsi troppo di sudore e fango, di sangue (possibilmente degli altri!) e fatica. Non si trattò dell’epico sacrificio del primo presidente socialista eletto nel «Nuovo Mondo», ma piuttosto di un golpe civico-militare interno alla stessa classe dirigente, organizzato dal partito di maggioranza, una fazione della destra ultraliberale dello storico Partido colorado, al Governo in Uruguay dal 1967.

La «Svizzera del Sudamerica»

Con una superficie leggermente più grande di quella della Tunisia, l’Uruguay è un paese dove ancora oggi il numero dei capi di bestiame supera ampiamente (nella misura di quasi quattro a uno) quello dei suoi abitanti. Meta annuale di un turismo esclusivo che a Punta del Este ha trovato la sua Costa Smeralda d’oltreoceano, trasformandola in una delle spiaggie più eleganti e raffinate di tutto il continente sudamericano, fino al 2009 il secondo stato latinoamericano più piccolo dopo il Suriname veniva chiamato da molti la «Svizzera del Sudamerica».

Dal secondo dopoguerra in avanti la proverbiale riservatezza dei suoi banchieri lo convertì infatti nell’unico paradiso fiscale d’America Latina, terra promessa per ex fascisti in cerca di redenzione, residenza privilegiata di «venerabili» chiamati Licio Gelli e Umberto Ortolani, storico anello di congiunzione tra le dittature latinoamericane degli anni Settanta e gli interessi economici di casa nostra. Patria contesa del tango e del calcio latinoamericano, come cercarono disperatamente di mostrare i militari con quella foglia di fico che fu il Mundialito del 1981, lo sfortunato torneo fra le nazionali vincitrici delle Coppa del mondo di calcio a partire dal 1930, sulla falsariga del Mundial argentino del 1978, nel tentativo di rilanciare l’immagine internazionale del paese. Ma soprattutto scenario di uno dei più affascinanti carnevali del mondo, con la sua originalissima commistione di culture africane di discendenza coloniale e tradizioni indigene, spagnole e italiane.

Ripetutamente schiacciato dai vicini colossi argentino e brasiliano che hanno finito per dirottare l’interesse di milioni di turisti verso i propri prodotti d’esportazione, l’Uruguay continua a rappresentare per molti un paese ancora sconosciuto. La sua storia è condizionata da una endemica rivalità nei confronti della vicina Argentina, di cui un tempo fu provincia – da cui il nome di República Oriental del Uruguay – e che ancora oggi, a distanza di quasi due secoli, torna a presentarsi sotto varie forme. Basti pensare alla periodica minaccia argentina di organizzare picchetti autostradali mirati a impedire la libera circolazione lungo i due ponti sul fiume Uruguay, la frontiera naturale tra i due paesi. È quanto è successo per esempio qualche anno fa, nel 2007, con il conflitto internazionale scaturito in seguito alla costruzione di uno stabilimento per la lavorazione della cellulosa del legno nei pressi della città uruguaiana di Fray Bentos. Un investimento che secondo il governo argentino minacciava di contaminare la vicina città di Gualeguaychú, ubicata sull’altra sponda del fiume, sul proprio territorio.

La canzone in esilio

Ragioni geografiche, storiche e politiche, oltre alla proibizione imposta ai media nazionali di utilizzare il termine «dittatura», sembravano destinate a sottrarre ai tragici fatti uruguaiani la ribalta internazionale. Ma presto incominciarono ad arrivare i primi esiliati e rifugiati. La maggior parte di questi trovava riparo in Europa, dove paesi come Svezia, Olanda e Francia gli offrirono asilo. Qualcun altro scelse la Spagna, approfittando delle prime timide aperture democratiche di un franchismo ormai stanco e che volgeva finalmente al termine, anche se per morte propria, per ragioni anagrafiche, senza fare i dovuti conti col proprio passato. La transizione democratica inaugurata con la morte di Franco nel novembre del 1975 finirà infatti per seppellire i crimini di una dittatura quasi quarantennale in un omertoso silenzio garantito da una Ley de Amnistía che decise comodamente di equiparare vittime e carnefici in una sorta di rilettura evangelica dell’antica legge biblica del taglione, passando dal tradizionale «occhio per occhio, dente per dente» alla non meno mostruosa logica del «tutti colpevoli…tutti assolti».

30storie_Alfredo_Zitarrosa-Mis_30_Mejores_Canciones-Frontal

Se grazie alle pagine di celebri scrittori esiliati come Juan Carlos Onetti, Mario Benedetti ed Eduardo Galeano in Europa riuscivamo a sapere qualcosa di più rispetto ai parsimoniosi servizi giornalistici dell’epoca, fu in realtà nella canzone popolare che la Resistenza uruguaiana trovò la sua forma d’espressione più efficace. Cielito, triunfo, taquirari, chamarrita si mescolavano così, per la prima volta senza pregiudizi, al tradizionale romance ispanico, al canto popular urbano fino a incorporare elementi della murga e del candombe, del rock, della poesia e della canción protesta per trasformarsi nel nuovo grido di ribellione di una generazione non più disposta ad accettare il fatalismo e l’autorità.

Grazie alla televisione le immagini di eventi apparentemente così distanti come la guerra del Vietnam, il maggio del ’68 e la primavera di Praga, la rivolta del Cordobazo argentino e il massacro di Tlatelolco in Messico, con le sue decine di morti a dieci giorni dall’inizio delle Olimpiadi di Città del Messico del ’68, irrompevano nelle case di tutto il mondo. Con la rivoluzione cubana del 1959 il desiderio di emancipazione dagli interessi neocoloniali prima britannici poi statunitensi per molti giovani latinoamericani si trasformava per la prima volta in realtà.

Libero sfogo al sogno

Con dischi come Canciones para el hombre nuevo e Canciones para mi América (1968), Canto libre (1970), Canciones chuecas (1971) Daniel Viglietti fu tra i primi a dare libero sfogo a questo sogno. La sua canzone A desalambrar (1969) divenne insieme a Cielo del ’69, portata al successo nel 1970 da Los Olimareños, l’inno di una generazione intera. Poi arrivò Alfredo Zitarrosa, con canzoni come El camba (1965), Coplas al compadre Juan Miguel (1966), Doña Soledad (1968), Canto de nadie (1973), Chamarrita de una bailanta (1974) a dare spazio alla ribellione dei moderni «dannati della terra». Quindi le militanti Al comandante Ernesto Che Guevara (1968), Chamarrita de los milicos (1970), Triunfo agrario (1973), Defensa del cantor (1974), Triunfo de los vencidos (1984) fino allo struggente Adagio en mi país, una specie di requiem in formato canzone dedicato all’Uruguay oppresso dal regime. Furono questi i grandi protagonisti di una canzone d’autore che a partire dal 1969 si fece interprete di una programmatica rottura dei confini tra generi musicali.

30storie_los_olimarenos

L’apparente conflitto tra canto popular urbano e musica folclorica veniva superato grazie alla testimonianza e all’impegno di giovani artisti che, nonostante le evidenti differenze politiche (dal comunismo di Zitarrosa all’anarchia libertaria di Viglietti, fino ad arrivare alla lotta armata del tupamaro Anibal Sampayo, detenuto dal 1972 al 1980) forgiarono uno dei più importanti movimenti culturali di tutto il Sudamerica. Un movimento cantautorale – anche se non fu mai concepito come tale – che nell’ambito del folclore trovò maggiori resistenze, come mostrato dal caso di Osiris Rodríguez Castillo e Santiago Chalar che condussero la propria rivoluzione culturale dalle file rispettivamente dei blancos e dei colorados, i due tradizionali partiti di governo. A completare il quadro, oltre al celebre José Carbajal «El Sabalero», una serie di poeti improvvisatori della campagna (payadores) ispirati dall’opera di Bartolomé Hidalgo, il grande padre della poesia gauchesca dei primi dell’Ottocento. Tra questi l’anarchico Carlos Molina, protagonista di un famoso duello canoro proseguito fuori dallo scenario con uno scontro che ridusse in fin di vita il payador conservatore Héctor Umpierrez, e poi ancora Quintín Cabrera, il duo Larbanois-Carrero e Los Zucará. Al loro fianco importanti nomi come Romildo Risso, autore dei testi di alcune delle più belle milonghe di Atahualpa Yupanqui; Washington Benavídez, Víctor Lima, morto suicida nel 1969, il maestro di scuola Rubén Lena fino ad arrivare a Rubén Olivera, padre insieme a Mauricio Ubal del famoso A redoblar, vero inno della resistenza contro la dittatura, portato al successo dal gruppo Rumbo nel 1979.

La censura e l’esilio

Nel gennaio 1976 il dipartimento delle Relazioni Pubbliche del Governo militare distribuì a tutte le radio e le televisioni del paese una lista con cui si proibiva la messa in onda della musica di Viglietti, Numa Moraes, Zitarrosa, Sampayo e del cantautore catalano Joan Manuel Serrat. Pochi mesi prima la medesima sorte era toccata a Los Olimareños. A parte Sampayo, che allora si trovava in carcere, Zitarrosa era l’unico a trovarsi ancora a Montevideo. In breve tempo dovette andarsene nuovamente, imbarcandosi in un lungo e doloroso esilio che lo porterà a risiedere per anni in Spagna, Messico e Argentina. Fu proprio a Buenos Aires, a dittatura argentina appena terminata, nel luglio del 1983, che registrerà il suo concerto più memorabile (Zitarrosa en Argentina, 1984). Un evento a cui fece seguito quello di Daniel Viglietti del marzo 1984, nello stadio Luna Park della capitale argentina, anch’egli pochi mesi prima del suo definitivo ritorno a Montevideo. A partire da allora poterono finalmente tornare in patria anche Benedetti, Galeano, Los Olimareños, «El Sabalero», Cabrera, Numa Moraes, Sampayo (che dopo la sua liberazione si era esiliato in Svezia) e il grande murguista Jaime Roos.

30storie_daniel_vigliett_i2-

Se il 18 maggio del 1984 cinquanta mila spettatori commossi accolsero Pepe Guerra e Braulio López per l’atteso ritorno sulle scene dopo un decennio di assenza de Los Olimareños (Si éste no es el pueblo, 1984) un anno dopo sarà la volta dell’evento simbolico con cui voltare definitivamente pagina. Mario Benedetti e Daniel Viglietti salivano sul palcoscenico del Teatro 18 de julio di Montevideo per registrare A dos voces un importante recital di poesia e musica destinato a una tournée internazionale che durerà per quasi vent’anni.

La transizione democratica

Con il ritorno della democrazia in Uruguay i sopravvissuti, raccolti i cocci di un paese distrutto, potevano finalmente guardare al futuro. Dopo la lunga assenza imposta, anche il rock poteva tornare di moda, grazie ad artisti come Jaime Roos, Eduardo Darnauchans e Fernando Cabrera. Ad ogni modo molti dei loro sogni furono rapidamente frustrati da una normalizzazione democratica che troverà nel neo presidente Julio María Sanguinetti il nuovo garante della pacificazione nazionale attraverso il suo sistematico ostacolare le inchieste sulla violazione dei diritti umani, la legge di amnistia nei confronti dei crimini commessi dalla dittatura e il successivo indulto generale del 1986. Un processo coronato con la nomina del vecchio generale golpista Hugo Medina, primo militare uruguaiano a dichiarare pubblicamente di aver ordinato la tortura durante gli anni del regime, a ministro della Difesa nel 1987. Per questa ragione lo scrittore Juan Carlos Onetti rifiutò l’invito a partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo Governo decidendo di non fare mai più rientro in patria. Scelta che gli valse l’ostracismo e la damnatio memoriae da parte delle autorità uruguaiane fino alla sua morte del 1994.

A quarant’anni dall’inizio della dittatura per quanto riguarda la diffusione della musica popolare uruguaiana nel mondo il bilancio è amaro. Quel che è certo è che non ci furono discografici pronti a spendersi internazionalmente per aiutarla a guadagnarsi almeno un poco di quello spazio meritato, come avrebbero invece fatto poco dopo con quella cilena, organizzandone un vero boom mondiale. Quel che resta, oggi, è la consapevolezza dell’impegno e del valore di una generazione di artisti e cantautori che furono tra i grandi pionieri di quella che passerà alla storia come nueva canción latinoamericana.
* Storico della canzone latinoamericana e critico musicale, conduce su Radio 3 España il programma Café del sur