The New Republic la definisce «la battaglia giusta» combattuta «dagli stati rossi» quindi, in altri termini – quelli di un gruppo di docenti e ricercatori liberal che hanno inoltrato il proprio contributo ai giudici costituzionali Usa – dagli «sgradevoli», se non «spregevoli», sponsor delle leggi: quelle della Florida e del Texas ieri al vaglio della Corte suprema. Le due norme, varate dai governatori repubblicani Ron DeSantis e Greg Abbott, «difendono» la libertà di opinione degli utenti di destra – con le parole del governatore della Florida – dall’«ideologia della Silicon Valley», ovvero dalla moderazione dei contenuti violenti, d’odio e di disinformazione sulle piattaforme social.

I casi “gemelli” dibattuti ieri a Washington – Moody v. NetChoice e NetChoice v. Paxton – sono ritenuti i più importanti in fatto di applicazione del Primo emendamento nell’epoca di internet. Gli stati repubblicani sostengono che le piattaforme social siano come centri commerciali o compagnie di telecomunicazione: senza voce in capitolo sui contenuti dei messaggi che vengono trasmessi o passati di mano in mano al proprio interno. Gli “sfidanti” delle leggi, le due associazioni Net Choiche e Computers & Communications Industry Association, sostengono invece che al pari dei giornali e degli altri media le piattaforme siano tutelate dal primo emendamento, e dunque pienamente in diritto di regolamentare i contenuti che appaiono sulle proprie pagine social. Nel corso del dibattimento la giudice liberal Elena Kagan ha citato il caso di X (ex Twitter) proprio per sottolineare la differenza fra un luogo da ritenersi «neutrale» come il centro commerciale e i social network: «Da un giorno all’altro gli utenti si sono ritrovati su X». «Le regole erano cambiate e così i loro feed». Che amassero o odiassero i cambiamenti (Elon Musk ha fondamentalmente abolito ogni tipo di moderazione) è indubbio, ha sostenuto Kagan, che la differenza fosse tangibile.

Gli oppositori delle due leggi sostengono giustamente che l’abolizione della moderazione aprirà la porta a ogni genere di contenuto estremo, da quelli del Kkk all’ ideologia nazista. E ancor più giustamente citano come precedenti la disinformazione sul Covid e la violenza scoppiata il 6 gennaio come «controindicazioni» della mancanza di moderazione adeguata. Tuttavia la memoria “discordante” presentata ai giudici dai docenti liberal sottolinea sì il danno che la mancanza di moderazione potrebbe causare alla società, ma mette in guardia da quello altrettanto grave di espandere senza limiti il «corporate speech», la libertà di parola incontrollata delle grandi corporation. Dato che la Silicon Valley, a differenza della propaganda di DeSantis e Abbott, non è certo la patria di un pensiero progressista.