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I porti italiani sono aperti perché chiuderli è illegale

Mare Jonio Due giorni fa la nave italiana Mare Jonio dell’organizzazione Mediterranea Save Humans, ha soccorso 50 persone in fuga dalla Nigeria, dal Gambia, dal Camerun, dalla Guinea e dal Senegal. Mentre […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 20 marzo 2019

Due giorni fa la nave italiana Mare Jonio dell’organizzazione Mediterranea Save Humans, ha soccorso 50 persone in fuga dalla Nigeria, dal Gambia, dal Camerun, dalla Guinea e dal Senegal. Mentre scriviamo l’imbarcazione ha raggiunto il porto di Lampedusa dove è iniziato lo sbarco dei naufraghi; e si ipotizza il sequestro della Mare Jonio e, per l’equipaggio, quello che viene definito pudicamente il «restare a disposizione delle autorità». Un esito tutt’altro che scontato, dal momento che l’intera giornata era stata attraversata dalle dichiarazioni tonitruanti dei due Vicepremier. Il ministro dell’InternoSalvini ha dichiarato che i nostri porti «erano e restano chiusi»; e Di Maio ha affermato (Dio lo perdoni) che «una Ong italiana non può permettersi di disobbedire alla Guardia Costiera Libica».

Resta il fatto che non esiste alcun provvedimento del Consiglio dei Ministri che abbia disposto una misura di chiusura dei porti. Misura che sarebbe, in ogni caso, illegale sotto il profilo normativo e costituzionale. Di conseguenza, i porti italiani erano e restano aperti. Poi intervengono spericolate decisioni politiche come la «Direttiva per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto all’immigrazione illegale», resa pubblica nella notte di lunedì scorso. Secondo quel testo, tra i 50 naufraghi soccorsi dalla Mare Jonio (minori compresi), potrebbero «celarsi soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per la sicurezza o l’ordine pubblico». Dunque, invece di accertare rigorosamente l’eventuale ed effettiva pericolosità di ognuno, si sarebbe voluto tenerli a mollo tutti.

Per una volta non è andata così. Nella giornata di ieri, l’imbarcazione era rimasta a qualche centinaio di metri al largo delle coste di Lampedusa, scortata da tre navi della Guardia Costiera italiana. E aveva ricevuto un’ispezione da parte della Guardia di Finanza che, al termine dei controlli durati sei ore, dichiarava di non aver rilevato alcunché di critico: a parte le condizioni delle persone tratte in salvo, evidentemente «provate». Non c’è da stupirsi, dal momento che le stesse sono transitate dalla Libia – non certo un paese sicuro – e dai suoi centri di detenzione in cui avvengono «orrori inimmaginabili» (da un recente rapporto delle Nazioni Unite).

Dopodiché, per ragioni al momento difficilmente decifrabili e in una prospettiva che attualmente sfugge, è stato consentito l’approdo a Lampedusa. Ciò che c’è ancora da temere è – rispetto a futuri episodi simili – un comportamento ondivago da parte del Governo, lacerato al proprio interno da contrasti insanabili e soggetto a mille pressioni, oltre che a una vocazione sciaguratamente propagandistica e demagogica, tesa di volta in volta a intercettare gli umori che ribollono nel corpo profondo del paese. Non si tratta di una circostanza inedita, e non si deve pensare esclusivamente agli ultimi quattro-cinque anni. La tentazione al respingimento di migranti e richiedenti asilo ha una storia antica e meschina, che ha conosciuto un episodio, oggi totalmente dimenticato, già quindici anni fa.

Era il 2004 quando la nave Cap Anamur, dell’omonima Ong di Colonia, dopo aver tratto in salvo dalle acque del Canale di Sicilia 36 profughi sudanesi, venne bloccata in mare per ben tre settimane. Stefan Schimdt, il capitano, racconta «li soccorremmo avvisando le autorità italiane e li salvammo. Poi per tre settimane ci bloccarono in mare aperto perché non ci volevano fare sbarcare sulle coste siciliane e quando finalmente ci fecero attraccare a Porto Empedocle ci arrestarono per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fummo arrestati». E prosegue: «solo dopo cinque anni, dopo il processo, ci assolsero. Non avevamo compiuto nessun reato, avevamo salvato soltanto delle vite umane che stavano per affondare” (La Repubblica, 29 aprile 2017).
Questa volta, e provvidenzialmente, la storia non si è ripetuta negli stessi identici termini. Resta un elemento costante, pur a distanza di tanti anni e che addirittura sembra precipitare: un crescente spregio verso la tutela dell’incolumità degli esseri umani, soggetta alle oscillazioni degli interessi politici.

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