Anche a non tener conto delle loro motivazioni ideali, ma a ragionare unicamente delle loro convenienze elettorali, i partiti hanno svolto per una lunga stagione una fondamentale azione inclusiva e ugualitaria. In special modo promuovevano, dal governo ma anche dall’opposizione, misure politiche a beneficio di una larghissima parte della popolazione: lo Stato sociale è stato il prodotto di quest’azione promozionale, che ha coinvolto, insieme ai partiti di sinistra, pure, magari solo per calcolo elettorale, quelli moderati e conservatori.

I partiti, insomma, sono stati il fondamentale bastione a difesa della società contro i potentati economici.

Questa stagione si è esaurita da un pezzo. Due i moventi di solito addotti in letteratura.

Il primo è il cambiamento del pubblico, per ragioni culturali e non solo, divenuto refrattario alle tecniche di arruolamento dei partiti. Il secondo fattore è il cambiamento dei partiti stessi: per arruolare elettori, hanno adoperato altre tecniche. Resisi finanziariamente autonomi grazie al finanziamento pubblico, attraggono gli elettori con le misure politiche che sono in grado di assumere.

Sono però misure a carattere altamente selettivo, rivolte ai segmenti sensibili dell’elettorato e agli interessi, alcuni dei quali sono pure in grado di sostenere i partiti finanziariamente. Senza dimenticare l’utilizzo dei media per rivolgersi al grande pubblico.

In realtà, nessuno dei due moventi era inevitabile. Sopra ogni cosa, l’evoluzione dei partiti è figlia della durissima guerra condotta contro di essi.

Gli avversari principali sono stati quei potentati economici contro cui i partiti facevano da bastione. Che hanno investito i partiti con un’azione denigratoria condotta in special modo tramite i media. Trovando soccorso in molti ambienti intellettuali. La politica condotta attraverso i partiti sarebbe motivo di mediazioni inutili, costose e fonte inesauribile di corruzione.

Una democrazia «moderna», sottoposta agli impietosi venti della globalizzazione, non può concedersi un simile spreco. Ma i partiti hanno incontrato anche altri nemici. Cioè la critica – non infondata e spesso con le migliori intenzioni – che ha sottolineato anch’essa la loro autoreferenzialità e la loro inclinazione al malaffare, vantando magari i pregi della società civile, dei movimenti e quant’altro.

Il paradosso è che i partiti, anziché contrastarle, hanno accolto con entusiasmo le critiche, utilizzandole per accentuare la propria autoreferenzialità e per ridurre le loro cure per gli elettori, eventualmente surrogate con palliativi: la personalizzazione plebiscitaria della leadership e forme di coinvolgimento episodiche quali le primarie.

A tirare le somme, i partiti per primi hanno archiviato la loro azione inclusiva e egualitaria e hanno consegnato la società alle soperchierie del mercato e dei suoi potentati.

L’azione collettiva era l’arma più possente e incisiva. Ve ne sono altre, tra cui la critica dell’ordine stabilito delle cose. Che però è efficace solo se si rivela egemone. Dove c’era azione collettiva, più o meno intensa, troviamo oggi al contrario malcontento diffuso, che ha due segni più evidenti: l’irrequietezza elettorale e l’astensionismo.

Non bastasse, da tempo c’è chi aizza il malcontento. Sono i cosiddetti partiti e movimenti «populisti», la cui vera natura è stata rivelata dal successo di Trump. Promettendo di proteggere la società, i populisti non la difendono dal mercato, ma si limitano velleitariamente a promettere di ripararla dai venti della globalizzazione. Non senza produrre disastri nella coscienza collettiva coi loro discorsi razzisti.

È però l’azione collettiva così fuori tempo come in molti, partiti in testa, amano sostenere? La società non è più quella in cui avevano prosperato i partiti inclusivi e egualitari. Sono inimmaginabili le serate in sezione e la partecipazione di altri tempi. Ma non è detto nemmeno che la società sia così refrattaria all’azione collettiva a vasto raggio. Podemos in Spagna e il laburismo rivisitato di Corbyn hanno mostrato che così non è, dando prova di una discreta e ben compensata fantasia.

Serve anzitutto un progetto politico chiaro. Non un’elaborata e instabile alchimia di frammenti di ceto politico scontento, emarginato o aspirante. Forse non serve neanche un partito. Serve invece assolutamente un’iniziativa politica in grado di ottenere un vasto seguito popolare, fondata su una definizione persuasiva, e semplice, di priorità.

L’azione di governo, ove l’impresa avesse successo, sarebbe senza dubbio complicata. Ma tutti sono grado di intendere cosa significhino: protezione del lavoro e del reddito; riequilibrio fiscale a spese dei privilegi dei ceti abbienti; politica industriale (non fatta con gli sgravi fiscali); sistema sanitario e sistema scolastico universali; riordinamento delle pensioni; tutela dell’ambiente e del territorio, politica degli alloggi.

Mettendo in chiaro che, a proteggere la società non sarà il leader salvatore, che buchi lo schermo, ma un vastissimo e generoso lavoro di squadra, in cui tutti facciano qualcosa a beneficio dei propri simili.