Il dibattito sulle decisioni da prendere nei confronti dei profughi afghani sta mettendo a nudo ipocrisie, paradossi, nonché autolesionismo delle politiche anti-migratorie praticate dai maggiori Paesi europei e dall’Ue.

Tante volte s’è cercato di velarle con la distinzione tra immigrati regolari aventi diritto a chiedere asilo in quanto fuggono da guerre e persecuzioni e immigrati «economici» da respingere nonostante cerchino scampo da condizioni insostenibili di povertà, disastri ambientali, oppressioni.

Senonché negli anni passati i profughi afghani venivano respinti nonostante fuggissero da una guerra condotta per vent’anni dagli stessi membri della Nato che sbarravano loro le porte. Ad esempio, tra il 2008 e il 2020, l’asilo è stato rifiutato a circa la metà del mezzo milione di profughi afgani che l’hanno richiesto ai Paesi dell’Ue in quel periodo.

Oggi la situazione, oltre che paradossale, diventa grottesca. Infatti chi cerca di scampare alle drammatiche conseguenze della conclusione di quel lungo, ferale quanto inutile conflitto si sente dire dagli Stati europei partecipanti alla guerra voluta da Usa e Nato, che occorre intervenire per garantire a tutti gli afghani che vogliono lasciare il paese di poterlo fare, purché non vogliano rifugiarsi da loro, cioè nei paesi diretti responsabili. Per giunta non mancano di sottolineare che chi ha più da temere è proprio la parte di popolazione che ha collaborato con i loro apparati militari e amministrativi.

Ma se proprio loro non li vogliono, dove devono andare? La risposta è: nei paesi vicini, cioè Pakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Iran. Paesi che, a cominciare dal Pakistan, sono tra quelli con più alti tassi di emigrazione in rapporto alla popolazione, versando in condizioni economiche e di precarietà politica di poco migliori degli afghani. Eppure già accolgono profughi afghani in misura molto maggiore di quanto sono disposti a fare i ben più ricchi aggressori e neocolonialisti europei.

Sicché il caso dell’Afghanistan rende ancora più vistosa e paradossale la politica di respingimento dei migranti perseguita dagli Stati membri e dai dirigenti dell’Ue. Paradossale ed autolesionista perché, a cominciare dai più grandi e potenti, i Paesi europei hanno bisogno di accogliere un numero molto maggiore di migranti rispetto ai flussi attuali.

Infatti essi sono indispensabili per correggere uno squilibrio demografico insostenibile tra la popolazione non più attiva perché troppo giovane o anziana per lavorare e quindi dipendente da una base di lavoratori in misura sempre più eccedente. Inoltre gli immigrati nati all’estero coprono interi settori produttivi disertati dagli autoctoni e non solo nei lavori meno qualificati.

Si aggiunga che le tasse e i contributi versati dagli ultimi arrivati, ma messi in regola, coprono abbondantemente le spese per tutti i servizi di cui usufruiscono. Perfino le spese di “accoglienza”, mantenimento temporaneo e respingimento, pure in Italia che ne lamenta l’onere maggiore, sono coperte otto volte dal loro gettito fiscale (bilancio 2019). Il che dimostra che non ci sono oneri, ma solo vantaggi, anche fiscali, per gli Stati ospiti.
Perché, allora, la prevalenza netta e quasi ossessiva delle politiche di chiusura e respingimento?

I motivi sono diversi e anche poco nobili, come lo sfruttamento di sentimenti xenofobi a fini demagogico-elettorali. Ma al fondo v’è una ragione strutturale. Il blocco di potere tardo capitalista, nell’ultimo quarantennio, si è andato rafforzando attraverso politiche sempre più conservatrici e chiuse ad ogni trasformazione sociale. Viceversa l’immigrazione non solo richiede una società aperta, ma è necessaria alla sua evoluzione. Infatti concorre attivamente a quella continua opera di costruzione e ricostruzione dei rapporti sociali che è vitale per il divenire di una società. Il che richiede però una dialettica oggi oppressa.