«Non ho diritto a utilizzare l’esperienza di terzi per dare senso alla mia, ma mi risulta impossibile tracciare la linea che mi separa dagli altri; io sono tutti coloro che mi hanno contaminato». Giunta quasi all’epilogo di Transito (Perrone, pp. 127, euro 15, traduzione di Matteo Lefèvre, edito in Spagna nel 2019 con il titolo Cambiar de idea), Aixa de la Cruz svela ciò che le è costato scriverlo.
Nata a Bilbao nel 1988, scrittrice e femminista con un dottorato in Teoria della letteratura e Letteratura comparata, sorride quando ci dice che «questo libro è breve ma il manoscritto originale contava molte più pagine, è stato senza dubbio un atto terapeutico». Nel mutevole paesaggio offertoci in lettura da Aixa de la Cruz il transito ha molti nomi di cui il più sontuoso è la trasformazione lungo pochi anni che accompagnano la giovinezza dell’autrice fino al 2017. Sono attraversamenti di cui non si cercano esiti o soluzioni quanto piuttosto collocazioni e torsioni del presente a proposito di sessualità, relazioni, decostruzioni dell’ovvio. Il soggetto del desiderio che viene allestito ha un tenore autobiografico evidente, di cui si avverte la scossa, come un lieve turbamento riconoscibile anche nel volto di questa giovane e brillante sperimentatrice che si è misurata con il romanzo (De música ligera, 2009, e La linea del frente, 2015) e il racconto (nella sua raccolta Modelos animales, 2015).
Oggi alle 16.30 al Salone del Libro di Torino, Aixa de la Cruz parlerà del suo libro (entrato in cinquina del premio Strega europeo) insieme a Simona Cives e Nadia Terranova.

«Transito» è un testo anfibio, tra il memoir e il saggio, con una scrittura saldamente situata che segue la sua formazione teorica ma soprattutto la sua pratica politica. Lei sostiene che, a conti fatti, le barriere tra cronaca, memorie, autofiction e fiction siano inesistenti perché scrivere è ricordare e ricordare è sempre un atto immaginativo.
Ho riflettuto molto sui confini tra i generi e credo di poter concludere che si tratti di ingredienti differenti, per esempio là dove c’è troppa esperienza o se ne trova troppo poca. Tuttavia più che di steccati parlerei in fondo di un continuum definendo, infine, Transito come un auto-saggio. I primi capitoli preparano chi legge all’esplicito saggio finale, l’ultimo capitolo. Durante gli anni universitari mi infastidiva la prosa accademica, quella dove si pontifica sul mondo, si pongono pensieri e opinioni ma scompare la soggettività. In Transito ho allora squadernato questo procedimento e ho voluto far sapere chi sono, chi ci sia dietro alla qualità di quella scrittura situata, incarnata, le ragioni, il perché abbia scelto di scriverlo.

È una coscienza questa della soggettività in relazione e sessuata che arriva dal femminismo. Centrale è toccare il corpo, che è il proprio e non solo quello della scrittura. «Transito» si apre la notizia di un incidente di cui è stata protagonista una sua amica restandone gravemente colpita. Lei, Aixa, rammenta che i corpi sono fatti per rompersi, solo che riuscire ad arrivare al dolore di un’altra è un percorso non così scontato.
Nell’esercizio di memoria contenuto in questo libro c’è il diventare adulta, con il dolore che non è solo il nostro ma anche di altre e altri. Starne al cospetto, guardarlo senza minimizzarlo, sentirlo. L’incidente della mia amica Zuriñe inserito all’inizio di Transito è stato anche una metafora di ciò che stava muovendosi in quell’anno, il 2017. Ciò che mi chiedeva Zuriñe era di non distogliere lo sguardo dalle sue ferite fisiche, ciò che è capitato dopo è stata la stessa domanda a proposito del fenomeno del #metoo; è stato come se il suo corpo mi avesse preparata a quell’ascolto attivo, presente, senza mediazioni e non vittimizzante che altre avrebbero reclamato. Le cicatrici, in questi casi non necessariamente evidenti ma emotive, profonde, avevano avuto un precedente nella relazione e reciprocità tra donne.
Un altro tema che emerge è infatti la violenza, si tratta di quella maschile contro le donne, di quella patriarcale, senza sconti, come tuttavia specifica, anche per quella mimetica.
Il cammino che propongo è di rimuovere qualsiasi tipo di mediazione davanti a chi sta parlando di una violenza diretta. Chi racconta la violenza può farlo dopo anni avendone preso coscienza e necessitando di un processo di revisione collettiva. Il senso di colpa non può restare individuale. Bisogna invece assumere il portato della violenza come dato strutturale, sistemico. In fondo il libro è anche il superamento di questo conflitto.

Le voci che compone nel suo «Diccionario en guerra» (2018) andrebbero forse lette accanto a «Transito». Ci sono infatti delle connessioni, riguardo il modo in cui lei si avvicina ai testi; non scrive infatti per calmarsi ma è la scrittura a calmarla, si avvicina al foglio bianco digrignando i denti ed è allora che la letteratura la «civilizza», con le sue norme e le sue regole come l’inferno burocratico placa un cliente insoddisfatto e impaziente.
La lingua che utilizziamo è quella del potere, mi sono confrontata su questo punto con Cristina Morales e abbiamo convenuto che qualsiasi atto letterario, contro il sistema o che abbia una intenzione rivoluzionaria, si scontra con questa ipocrisia. È un po’ ciò che rammentava Audre Lorde a proposito degli strumenti del padrone con cui non si può pretendere di abbattergli la casa. La contraddizione è evidente anche nella letteratura, i linguaggi del margine sono differenti, popolari, e anche se il lavoro costante è quello di oltrepassare il canone l’immagine che ho è di qualcosa che non può dirsi conclusa.

Il modo in cui lei si riferisce alle scrittrici però, non solo nella voce «Canone» del suo «Diccionario», è il riconoscimento di una genealogia critica attraverso cui, ancora una volta, trova riscontro nella sua esistenza. Nomina Virginia Woolf, come anche la mistica inglese Giuliana di Norwick o ancora Emily Dickinson.
Il significato è preciso: non siamo sole, non siamo le prime. Ad aver scritto, a essere state male, come me nel momento in cui pensavo quel libro e soffrivo di isolamento. Ero in realtà in compagnia di tante donne, in una tradizione forse piccola ma non minore in cui ogni nome significava una vita che poi ci permette oggi di parlare e di parlarne. Virginia Woolf la rileggo spesso, ogni volta trovando indicazioni nuove, come Emily Brontë e il suo Cime tempestose da cui ho appreso l’idea malsana dell’amore romantico. Sono convinta che insieme alla rivendicazione legittima esista anche la gratitudine.
Sul tema della gratitudine lei scrive che il suo problema non è stato quello di uccidere i padri ma di essere grata alle madri, letterarie e femministe. È questa una pratica di prim’ordine.
È applicabile anche alla letteratura, in ciò che per esempio sosteneva Harold Bloom quando parlava di eterna competizione con i padri letterari. È una battaglia che indica una visione esatta ed è maschile. Specularmente le teorie darwiniste sono viziate dalla stessa postura. Esistono altri modi di vedere il mondo, capaci di immaginare una evoluzione per simbiosi tra le differenti specie, dove i licheni sono connessi agli animali e agli umani. La differenza è nello sguardo che proiettiamo, non può esserci solo quello prestazionale e violento, c’è anche quello dell’ammirazione.

 

SCHEDA

Oggi alle 11 al Salone del Libro (Sala del fumetto, padiglione 1), ci sarà un panel in collaborazione con Mufant dal titolo «Scritture femminili tra utopia e distopia». Valentina Dragoni, Paola Del Zoppo, Costanza Fusini, Eleonora Federici e Clara Stella parleranno dell’utopia femminista di Charlotte Perkins Gilman (di cui è appena stato pubblicato «Muoviamo le montagne» per la neonata e promettente casa editrice Le plurali) per arrivare alla distopia linguistica di Suzette H.Elgin (di cui Del Vecchio editore ha tradotto il libro «Lingua nativa»).