Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni nel Mediterraneo quest’anno sono morti 3.033 migranti, dieci al giorno.

Nicola Stalla è il coordinatore delle operazioni di Ricerca e soccorso per la Ong Sos Méditerranée a bordo dell’Aquarius. Lunedì ha denunciato il modo in cui il Centro di coordinamento dei soccorsi di Roma gestisce i salvataggi: la nave dell’Ong venerdì è stata costretta a rimanere ferma per quattro ore mentre i migranti su un gommone rischiavano la vita. Migranti poi riportati dalla Guardia costiera libica nei lager nel deserto da cui erano fuggiti.

Cos’è successo durante le operazioni di salvataggio della scorsa settimana?

Mercoledì avevamo intercettato due gommoni e messo in salvo i naufraghi, poi trasbordati sulla nave della Guardia costiera italiana Diciotti. Il giorno dopo c’è stata una sorta di anticipazione di quanto sarebbe successo venerdì. Il Centro di Roma ci ha chiesto di avvicinarci a un’imbarcazione in pericolo in acque internazionali, a est di Tripoli. Raggiunta la posizione, ci ha detto di restare in stand-by poiché il salvataggio era stato assegnato alla Guardia costiera libica, la cui unità tuttavia non era sul posto. Alla fine il salvataggio l’abbiamo fatto noi perché i libici hanno rinunciato. Venerdì invece siamo rimasti fermi e inermi per quattro ore, mentre le condizioni meteo peggioravano e il gommone rischiava di spaccarsi da un momento all’altro. I naufraghi poi sono stati presi a bordo dalla motovedetta di Tripoli e riportati in Libia.

Eravate in acque internazionali. Perché siete stati obbligati ad aspettare i libici?

Le convenzioni internazionali e il diritto del mare prescrivono l’obbligo del soccorso ma in condizioni di sicurezza per chi lo presta. Venerdì abbiamo contattato la Guardia costiera libica per segnalare la nostra posizione e offrire aiuto ma ci hanno ordinato di non intervenire. In passato è già capitato che si siano create situazioni molto tese, con colpi sparati dai libici contro Ong (ad esempio Proactiva open arms ad agosto ndr) e anche contro unità della Guardia costiera italiana o la marina tedesca, proprio a novembre.

Chi decide a chi spetta intervenire?

È il Centro di Roma che notifica la presenza di un natante in difficoltà e chiede l’intervento della nave più vicina. Di solito le operazioni avvengono al largo della Libia, così viene allertata la Marina e la Guardia costiera di Tripoli: a volte prendono in carico l’evento e a volte no. Il coordinamento è complesso, è vero, ma Roma prima ha attrezzato i libici con mezzi e addestramento e adesso cerca di dare loro legittimità e spazio d’azione. È una strategia politica. Le Ong, le unità civili o militari di uno stato sono obbligate a salvare i naufraghi e a condurli in un porto sicuro, i libici sono gli unici che non fanno operazioni di Ricerca e soccorso ma respingimenti.

Cos’è cambiato con gli accordi siglati dal ministro Minniti?

I migranti vengono riportati in un territorio talmente insicuro che nessuno stato ci tiene un’ambasciata. In tanti ci raccontano di essere finiti nelle prigioni libiche, torturati e costretti a pagare per riprendere il viaggio, riportati indietro dalla Guardia costiera e finiti dentro un altro giro, con nuove torture e un nuovo pagamento in denaro e poi ancora a rischiare la vita in mare. Non sono solo naufraghi, fuggono da violenze e stupri. La presenza in Libia dell’Oim o dell’Unhcr non impedisce tutto questo. Negli ultimi mesi la situazione è molto peggiorata al punto che adesso scappano gli stessi libici. Ci sono scontri tra milizie alimentati anche dalle politiche europee per la gestione dei flussi, c’è una situazione di pericolo generalizzato. Le prigioni sono ancora più sovraffollate, torture, estorsioni, violenze e lavori forzati sono aumentati.

Cosa si dovrebbe fare nell’immediato?

Qualsiasi azione dovrebbe salvaguardare le vite e i diritti umani, a mare e a terra, da entrambe le sponde del Mediterraneo. Invece l’obiettivo è attestare un confine invalicabile fuori dalla fortezza Europa.