Fra i punti cardine del nuovo governo, il presidente Draghi ha indicato la politica ambientale, tanto da istituire il nuovo ministero della transizione ecologica. In altra occasione, al Meeting di Rimini 2020, lo stesso Draghi aveva posto l’accento sulla centralità della attenzione ai giovani e alla loro formazione. Fra le due cose c’è un nesso molto stretto, perché la transizione ecologica ha tre dimensioni: tecnologica, economica e sociale, strettamente interconnesse. Non basta disporre delle tecnologie e delle tecniche appropriate, ma occorre da una parte modificare il modello economico che ha portato alle condizioni in cui ci troviamo oggi, e dall’altra cambiare gli stili di vita. Impresa, quest’ultima, tutt’altro che facile. Sosteneva Alexander Langer, pioniere dell’ambientalismo, che la conversione ecologica si potrà affermare solo se sarà socialmente desiderabile; non senza ragione se si considera che coloro i quali nell’attuale modello di vita si trovano bene non saranno per niente inclini al cambiamento e vedranno la transizione ecologica come tutta una serie di rinunce da ingoiare. Almeno inizialmente.

Può non essere così per i più giovani, gli attori principali del cambiamento e al tempo stesso le vittime se la transizione non avrà luogo. Per loro è importante, e siamo in tempo perché sia possibile, che la transizione ecologica sia desiderabile, affinché abbiano le argomentazioni necessarie per opporsi alle resistenze grandissime che dovranno affrontare per metterla in atto.

Allora vediamo: cosa può essere desiderabile per le giovani generazioni? Per prima cosa differenziarsi dalla vecchia generazione, in termini di valori e comportamenti; è sempre stato così (si sa, il giovane è ribelle). Ma oggi la differenziazione intergenerazionale deve essere molto più marcata di quanto non sia stata negli ultimi decenni, e ci sono molte buone ragioni. Sono ragioni che queste nuove generazioni cominciano ad esporre, e nascono movimenti come Fridays for Future, Extinction Rebellion, e tanti altri meno noti, ma attivi sui social media.

IN COSA QUESTI GIOVANI, quelli sensibili alle problematiche ambientali e sociali (e il loro numero va crescendo) intendono differenziarsi? Cosa c’è che non va nella vecchia generazione? È presto detto: la vecchia generazione è schiava dei persuasori occulti, e si fa fregare comprando Suv, bevendo Coca Cola e mangiando hamburger, lasciandosi abbindolare da chi cerca di vendergli cose di cui non ha bisogno e abbandonandosi all’acquisto compulsivo di beni che alla fine danno loro una sola soddisfazione: il possesso; per la vecchia generazione il successo di una persona è misurato da quanto guadagna, anche se per questo guadagno vive una vita che non gli piace, mettendo in secondo piano gli amici, la socialità, il contatto con la natura, la crescita culturale; la vecchia generazione dagli anni ’80 in poi si è adagiata sul modello di vita che gli è stato proposto, senza (se non raramente) alcun moto di ribellione, un modello che ha acuito le diseguaglianze e ci ha portato vicini al collasso ambientale.

Le giovani generazioni, quelle più coscienti delle problematiche ambientali e sociali – e che con ogni probabilità saranno la spina dorsale della futura classe dirigente per capacità e competenza – sanno che niente di tutto questo è desiderabile, e non lo desiderano. Desiderano piuttosto stare con gli amici, avere un ideale (è l’età degli ideali) per cui lottare. E questo ideale si materializza in un mondo in cui sviluppo e benessere si ottengono in armonia con la natura, e a questo si arriva attraverso la transizione ecologica, di cui possono, anzi si sentono, essere protagonisti.

QUESTE GIOVANI GENERAZIONI cercano un senso nel loro lavoro, sono più in sintonia con il pensiero di Adriano Olivetti che nel 1959 (!) diceva «… il lavoro è tormento dello spirito quando non serve a un nobile scopo». Ma ci sono altri elementi della transizione ecologica che possono apparire desiderabili alle nuove generazioni, e sono già individuati da quelli che manifestano contro l’inerzia dell’establishment a fare fronte al riscaldamento globale e alla perdita di biodiversità. Essi non vedono le persone in cui si imbattono come clienti o come competitor, per loro sono potenziali partner (vedi le numerose esperienze di co-working). Amano lo scambio libero di beni comuni, le connessioni, non amano i muri, hanno una naturale curiosità per l’altro, lo straniero non è da respingere ma da accogliere come portatore di nuovi stimoli e culture, dunque abilitatore di innovazione. Per loro l’economia civile, basata sulla collaborazione invece che sulla competizione, è scontata. Tendono a privilegiare modelli economici basati sull’uso piuttosto che sul possesso. Non amano accumulare ma condividere. Danno valore alla scienza e guardano alla tecnica non più come strumento di dominio sulla natura, ma come strumento che ci aiuta a convivere con i cicli naturali rispettandone la complessità. E trovano che questo approccio sia desiderabile, e per questo lottano.

MOLTI, NELLE GIOVANI GENERAZIONI, stanno radicalmente cambiando l’intera filiera del cibo, e molti ritornano a coltivare terre abbandonate. Consumano cibi biologici e prodotti localmente, dove sono sicuri che i lavoratori ricevono la giusta retribuzione. Acquistano nei mercati rionali e nei negozi di vicinato. Riducono drasticamente il consumo di carne e privilegiano il consumo di proteine vegetali e di frutta e verdura di stagione. E fanno tutto questo perché lo trovano desiderabile.
L’economia circolare per le giovani generazioni comincia a far parte della loro cultura, ma deve ancora fare un po’ di strada, specie per quanto riguarda il vestiario. Per differenziarsi dalla vecchia generazione cominciano ad accettare l’idea che un capo di vestiario unico – fatto dall’amico sarto che ha creativamente riutilizzato materiale di altri indumenti destinati a essere buttati nella spazzatura, oppure un capo di vestiario di grande qualità, un po’ fuori moda e per questo dotato di una sua personalità che distingue – sia più desiderabile di una nuova maglietta a buon mercato comprata da H&M o Zara. Ma sono ancora pochi. Cominciano a ridurre i consumi; sempre più spesso prima di ogni acquisto si chiedono: Da dove viene? Quanto consuma? È riparabile? È riciclabile? Dove va a finire? E cominciano a trovare desiderabile l’oggetto riusato, riparato, riciclato.

PER LE GIOVANI GENERAZIONI ORMAI L’AUTO non è più uno status symbol. Quello che conta è spostarsi, non con quale mezzo. E così proliferano le biciclette, i monopattini. Usano i trasporti pubblici e, se l’auto è proprio necessaria, il car sharing. Anche nella mobilità si passa dal possesso all’uso, in sintonia con l’economia circolare. E trovano questo approccio naturale, desiderabile. Le giovani generazioni, quelle che hanno acquisito coscienza ambientale, desiderano la transizione ecologica, e si organizzano per spingere verso la sua realizzazione, perché la vivono come strategia positiva, non come uno sforzo puritano, punitivo, che rimanda la gratificazione a un futuro remoto; la vivono accompagnata dalla gioia della vita stessa, della bellezza, del piacere, del sapere di essere nel giusto. La leggono come un miglioramento della qualità della vita, non solo come una necessità per evitare il collasso della biosfera e del sistema sociale e per garantire loro un mondo vivibile. E sanno anche che offre opportunità di lavoro e innovazione, lavoro non più come tormento, ma come forma di autorealizzazione.

Insomma trovano che la transizione ecologica sia desiderabile. Ma non basta che a trovare desiderabile un mondo basato sui principi della sostenibilità siano i giovani più sensibili, le élite che manifestano, che dibattono sui social media. Occorre che una più ampia rappresentanza della nuova generazione trovi questo mondo desiderabile, e ciò si può ottenere solo in un modo: diffondendo i principi della sostenibilità ambientale, che si coniuga con la giustizia sociale, sin dai primi gradi del processo formativo. È a scuola che occorre insegnare a vedere la sostenibilità, e il percorso verso di essa, come qualcosa di desiderabile.