Tutti i sostegni al reddito saranno coperti fino a giugno: le casse integrazioni; quella allargata da aprile in forma agevolata anche alle colf e badanti che lavorano in maniera irregolare; i congedi speciali; i bonus per le partite Iva (aumentato a 800 euro); l’annunciato «reddito di emergenza» (ReM) da 500 euro per almeno 3 milioni di persone. È su questa previsione, sincronizzata sui tempi incerti del dibattito sulla «fase 2» della crisi indotta dal coronavirus, che si sta orientando il governo nella definizione dell’imponente «decreto aprile» che dovrebbe mobilitare circa 2 punti di deficit, circa 40 miliardi che saliranno almeno a 55-60 in termini di saldo netto da finanziare.

Metà di queste cifre serviranno a rifinanziare la Cig e la cassa in deroga di altre quattro settimane, che si aggiungono alle nove previste, e i bonus per le categorie escluse da interventi emergenziali, presentati come «universali», ma che rischiano di escludere sempre qualcuno. Un problema a cui si cercherà di rimediare con il «reddito di emergenza», che dovrebbe essere un’estensione discrezionale e «una tantum» del cosiddetto «reddito di cittadinanza»; con l’estensione dei bonus forse con paletti ai collaboratori sportivi, a precari e autonomi esclusi a marzo. A maggio si potrebbe ripresentare lo stesso problema, causato da una visione frammentaria del Welfare che può creare nuove gerarchie nell’esclusione sociale dilatata da una crisi economica dalle conseguenze imprevedibili.

Ieri Bankitalia ha stimato una caduta del Pil attorno al 5% nel primo trimestre del 2020 a causa di una crisi che ha devastato «alcuni comparti dei servizi» mentre la produzione industriale avrebbe subito un ribasso del 6%, e del 15% nel solo mese di marzo. È un’illusione pensare che un simile impatto terminerà a giugno, dopo il quale ci sarà la famosa «ripresa» che supererà l’esigenza degli attuali sostegni sociali. Con ogni probabilità l’esecutivo sarà costretto a presentare nuovi decreti che allungheranno la loro durata, mentre la crisi socio-economica inizierà a mostrarsi in tutta la sua violenza. Non pensare, già ora e in prospettiva, a un intervento strutturale, universale, incondizionato e programmatico rischia di produrre devastanti conseguenze sulla vita delle persone. Ipotizzare di abbandonarle, dopo averle tutelate per qualche settimana, è il segno di una mancanza di visione sulla prospettiva della crisi.

Il 16 aprile la ministra del lavoro Nunzia Catalfo ha annunciato alla Camera la ricostruzione del sistema degli ammortizzatori sociali che oggi, stando gli ultimi dati, dovrebbero coprire a vario titolo 19 milioni di persone colpite dalla crisi. In questa fase «ci si è trovati a dover far fronte ad una emergenza mai conosciuta prima nel mondo del lavoro dovendosi affidare a strumenti normativi e procedurali vetusti, farraginosi, non al passo con i tempi» ha detto – un sistema di ammortizzatori che è intendimento prioritario per questo governo rivedere, migliorare, implementare, ricostruire ma che al momento, vista l’emergenza straordinaria, doveva e deve funzionare subito e al meglio».

E’ comprensibile che l’emergenza stia assorbendo tutte le energie del governo. L’emergenza è gravissima, e mai fino ad oggi in Italia è stato riconosciuto un ammortizzatore sociale ai lavoratori autonomi, ad esempio. Oppure la proposta di una cassa integrazione per il lavoro di cura. Ma rinviare il ripensamento, e la concreta attuazione, di una riforma di questo sistema non è la soluzione. Va fatto subito un lavoro strutturale e di prospettiva senza il quale il denaro erogato oggi non servirà a nulla, mentre le persone incluse in un nuovo sistema che, improvvisamente si è scoperto universalistico, possono ritrovarsi tra pochi mesi in una situazione ancora più ingiusta. Intervenire oggi, senza sapere cosa fare domani, è la premessa per creare disastri nella vita delle persone.L’emergenza è il momento per tracciare le linee del futuro. Dopo sarà troppo tardi. L’emergenza potrebbe finire davvero tra uno o due anni. La riforma, è evidente, non può attendere tanto.

Uno studio condotto nell’ambito del corso di Economia dei Tributi dell’Università della Tuscia ha reso evidente ieri la condizione materiale in cui vive un terzo della popolazione in Italia. Oltre 21 milioni di persone sono in seria difficoltà economica. Chi vive nell’economia informale, ad esempio, oggi non riesce a svolgere nessuna attività a causa del “lockdown” e ha un reddito nullo. La stima fatta da questa ricerca è 10 milioni di persone. Nel dettaglio: quasi 7 milioni di persone tra 25 e 65 anni non percepiscono alcun reddito; 4 milioni sarebbero le “casalinghe”, gli altri 3 milioni sono persone totalmente sconosciuti ai fisco che «in questo periodo hanno certamente difficoltà a svolgere qualsivoglia attività produttiva di reddito, anche in totale evasione di imposta». Infine ci sono i redditi bassi o pari a zero: si tratta di 18,5 milioni di contribuenti che dichiarano meno di 15 mila euro di reddito, di cui 7,6 milioni (il 41,29%) con redditi complessivi inferiori ai 6 mila euro, praticamente intorno a 500 euro lordi al mese. Le regioni in cui ricorrono più spesso queste situazioni sono Lombardia, Campania e Lazio. Per la Fondazione dei consulenti del lavoro il blocco delle attività produttive per l’emergenza Covid-19 ha generato «per 3,7 milioni di lavoratori il venir meno dell’unica fonte di reddito familiare». Le più colpite sono le coppie con figli (37%) e i genitori single (12%). In generale il 47,7% degli occupati dipendenti dei settori interessati dal lockdown guadagnava meno di 1.250 euro mensili, mentre il 24,2% si trova sotto la soglia dei mille euro.

Stando alle anticipazioni il “Decreto Aprile” dovrebbe estendere il reddito di cittadinanza in maniera occasionale: il “reddito di emergenza” (ReM). Il governo non intenderebbe eliminare vincoli e condizioni del reddito di cittadinanza esistente, in modo tale da rendere strutturale una misura incondizionata, l’unica capace di affrontare una crisi dal punto di vista universale. Lo chiedono le campagna sul “reddito di quarantena” e la petizione del Basic Income Network Italia (Bin). Viceversa si intende creare un nuovo ammortizzatore sociale che si aggiunge alla giungla esistente. Questo avviene nonostante l’intenzione della ministra del lavoro Catalfo di istruire la riforma del sistema verso un ammortizzatore unico. Questa contraddizione rischia di peggiorare la condizione di chi non rientra stabilmente nella bipartizione classica del lavoro tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, né risponde sempre ai criteri che servono a riconoscere una condizione di attività secondo l’occupazione e la disoccupazione. Questa condizione esiste già da anni, ed è definita “quinto stato”.

In compenso continua la campagna per mettere al lavoro nei campi i beneficiari del «reddito di cittadinanza». L’ipotesi sarebbe giustificata dall’obbligo al lavoro fino a 16 ore a settimana previsto dalla legge, attualmente sospeso per due mesi. Invece di prospettare un contratto di lavoro regolare, con le relative garanzie, a chi liberamente può fare questa scelta in un tempo di drammatica crisi di lavoro, ualcuno suggerisce di usare il beneficio di un sussidio pari a una media di 520 euro per obbligare al lavoro per sostituire la carenza attuale di manodopera. Da ultimo lo ha sostenuto ieri il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini (Pd): «Mettiamo a disposizione i Centri per l’impiego per individuare figure – ha detto – Mi verrebbe persino da dire che chi prende il reddito di cittadinanza può cominciare ad andare a lavorare lì così restituisce un po’ quello che prende».

Il malconcepito sussidio del workfare all’italiana si presta a queste considerazioni, non essendo una misura universale che difende il povero e il precario dai ricatti, dandogli la possibilità di scegliere, e non di subire. Insieme a una regolarizzazione dei migranti la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova ha detto di lavorare all’«introduzione di misure per l’attivazione di contratti di lavoro anche con percettori di prestazioni di sostegno al reddito». Per ora sarebbe dunque escluso l’abuso del sussidio del «reddito» come salario.