Nell’anniversario della fine dei raid Nato il 12 giugno scorso, hanno sfilato insieme a Pristina l’ex presidente Usa Bill Clinton e l’allora Segretario di Stato Madeleine Albright, i protagonisti della guerra «umanitaria» del 1999.

Mancava l’inviato Richard Holbrooke, nel frattempo morto, l’uomo che trasformò l’Uck da organizzazione terrorista anche per l’Amministrazione Usa in fanteria dell’aviazione atlantica. Esultavano i due «statisti» con gli albanesi del Kosovo che, contro gli accordi di pace di Kumanovo ma sostenuti da Washington, hanno proclamato in modo unilaterale nel 2008 l’indipendenza – che spacca ancora l’Onu e i Paesi dell’Ue -, dando vita all’ennesimo staterello etnico uscito dalla distruzione della Federazione jugoslava, grazie ai feroci nazionalismi interni e ai riconoscimenti delle patrie etniche da parte dell’Occidente.

A pochi metri dalla sfilata, presso la biblioteca comunale, era in corso, promossa da una Ong albanese che si occupa di «tutte le vittime» – racconta Alessandra Briganti in questo inserto – una mostra sui 1.133 bambini uccisi in quella guerra, tutti, albanesi, serbi e rom. Tanti quelli morti sotto le cluster bomb e i missili Cruise, piovuti dai raid della Nato anche ad avvelenare e a minare il territorio. Li hanno chiamati «effetti collaterali».

Ma l’effetto collaterale più vistoso è che a venti anni dalla fine della guerra, il risultato di quell’intervento armato occidentale resta disastroso. Nei Balcani, il sud-est dell’Europa, regna un pericoloso caos politico. Non solo più a nord restano irrisolti perfino i conflitti territoriali tra Slovenia e Croazia, e rimane in bilico la pace di carta di Dayton nella Bosnia Erzegovina.

Tra Serbia, Montenegro, Kosovo, Macedonia e Albania si consuma una nuova precipitosa crisi. Lo status del Kosovo indipendente ha aperto un conflitto aspro tra Pristina e Belgrado che ormai dichiara di «non controllare più la regione» che considera ancora come sua provincia; a Pristina contrattaccano imponendo dazi e costruendo un esercito, fuori dagli accordi di pace, mentre la Nato è costretta ancora a presidiare i monasteri ortodossi.

Così è girata la «voce» – dalle sedi dei governi locali – di un possibile scambio di territori, tra la Valle di Presevo, a maggioranza albanese nel sud della Serbia, con l’area di Mitrovica, a maggioranza serba nel nord del Kosovo. Una «voce» subito destabilizzante, tanto da far tornare le ombre del confronto armato.

Intanto, manco dirlo, ogni nuova nazione balcanica (il Montenegro e, appena cambiato nome, la Macedonia del Nord) entra non nella Ue ma nella Nato, quasi fosse il viatico alla democrazia, quando è il contrario: più spese militari e nuove basi dell’Alleanza, dopo quella Usa gigantesca di Camp Bondsteel in Kosovo.

Mentre resta disattesa la questione albanese con Tirana che, di fronte alla crisi politica interna, soffia sul nazionalismo della «Grande Albania». Intanto la Russia si dice pronta al soccorso slavo dei serbi, sconfitti, isolati e ricattati. Né soccorrono i «movimenti» che in ogni capitale dei Balcani tornano puntualmente in piazza: ognuno dei quali a malapena nasconde le istanze nazionaliste dietro la radicalità verbale contro il satrapo di turno.

Se non bastasse, i Balcani sono attraversati da una litania di profughi in fuga da altre guerre occidentali, con i quali – se non altro – qui le persone hanno visto rispecchiata la propria recente condizione. Anche perché contro i migranti l’Europa alza nuovi Muri incurante di erigere nuove frontiere tra Stati: è un messaggio diretto alle capitali balcaniche sulla reale possibilità di entrare nell’Ue e invece sulla necessità che perpetuino il loro «destino storico» di cane da guardia contro l’Oriente.

Così ha vinto la Nato che da strumento obsoleto di difesa dopo l’89, ha approfittato dei Balcani per trasformarsi in alleanza offensiva e sempiterna. Ma la guerra «umanitaria» non ha dato nessuna soluzione, ha solo aperto nuove ferite – che restano aperte – nel sud-est europeo. E pensare che continuano a raccontare che «l’Ue ha garantito per tutti questi anni la pace».