Con il pericolo dell’inflazione alle porte i governi si preparano a imporre una frenata alle politiche espansive che in questi anni hanno inondato di liquidità a basso costo i mercati (invero soprattutto le banche). Lo spettro della stagflazione, ovvero la combinazione di inflazione e stagnazione economica, porta con sé non solo la fine delle politiche espansive della Bce ma, cosa più grave, il rischio che la questione salariale venga di nuovo oscurata.

Negli anni Settanta, quando per la prima volta emerse il problema della stagflazione, le fiammate inflattive venivano dal combinato di rivendicazioni salariali in crescita e un aumento senza precedenti dei costi di approvvigionamento energetico (gli shock petroliferi). Gli scenari di oggi sono simili per l’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime, ma profondamente diversi per quello che riguarda il conflitto distributivo, con i salari che certo non risentono di un surriscaldamento eccessivo. E’ anzi vero il contrario.

I salari italiani oltre che eccessivamente bassi rispetto agli altri paesi europei perdono terreno di giorno in giorno rispetto all’inflazione. A fronte di un incremento annuo dello 0,8%, l’Istat prevede una perdita di potere d’acquisto del 5% nel 2022.
Se e quanto l’inflazione sarà passeggera o meno lo vedremo nei prossimi mesi. Questo tuttavia non può andare a detrimento di un problema, quello dei bassi salari che si trascina da almeno due decenni e che dovrebbe essere affrontato con strumenti nuovi, certamente non quelli che hanno accompagnato gli anni della grande moderazione salariale.

Le condizioni di oggi sono molto diverse da quelle che portarono alle scelte fatte negli anni Novanta. Allora il problema era il risanamento finanziario del paese e l’aggancio all’euro, a cui la concertazione e la politica dei redditi diedero un contributo fondamentale. Oggi il problema è proprio l’eccesso di moderazione salariale, tanto più in una fase come quella in cui stiamo entrando in cui le catene globali del valore tendono ad accorciarsi e la valvola delle esportazioni non abbastanza grande da compensare la dinamica stagnante dei consumi interni.

La stretta monetaria e il conseguente rallentamento dell’economia potrebbero peggiorare le cose per gli stipendi italiani, già mediamente bassi, tanto che sussidi come il Reddito di Cittadinanza vengono da più parti accusati di spiazzare il lavoro in alcuni settori. Parliamo di un trasferimento che mediamente ha garantito nel 2022 565,38 euro mensili a nucleo familiare non a persone come spesso si sente ripetere in barba ai dati ormai stranoti. Se davvero un reddito minimo garantito di questo tipo è considerato concorrenziale con il lavoro, non c’è indicatore più macroscopico della svalutazione a cui è giunto il lavoro. Piuttosto sarebbe necessario introdurre un salario minimo come hanno fatto molti paesi europei.

In Italia c’è un’opposizione trasversale a questo strumento. Le imprese sono contrarie per il timore di minimi imposti per legge troppo altri. Le organizzazioni sindacali per i possibili riflessi negativi sulla contrattazione collettiva. In realtà se si guarda a quello che sta succedendo in Europa la dinamica che si osserva è diversa. Contrattazione e salario minimo non sono in contrasto tra loro. In Germania l’IG metal, il principale sindacato tedesco, sta contrattando aumenti delle retribuzioni nell’ordine dell’8,2% nel settore dell’acciaio, mentre il governo ha annunciato che intende portare il salario minimo a 12 euro orari entro la fine dell’anno dagli attuali 9,82.

In Francia, dove il salario minimo è indicizzato al costo della vita, l’aumento su base annuale è stato del 5,9%%, arrivando nel 2022 a 10,85 euro orari (circa 1300 euro mensili netti su 35 ore lavorate). Infine, la Spagna dove il governo, dopo la stretta ai contratti a termine, ha portato il salario minimo a 1000 euro al mese su 14 mensilità (1166,66 in caso di 12 mensilità). L’Italia non c’è ancora arrivata.

In compenso, la copertura della contrattazione collettiva è ampia e superiore (80%) alla gran parte dei paesi europei. Il problema è la proliferazione dei contratti pirata e in generale il numero esorbitante dei contratti, alcuni dei quali con minimi retributivi al di sotto di una soglia minimamente accettabile. Per porre fine alla giungla dei contratti pirata occorre aspettare una legge sulla rappresentanza attesa oramai da decenni ma mai arrivata in porto.

Nel frattempo, sarebbe il caso di porre un freno per legge a certe retribuzioni che non hanno nulla di fisiologico, essendo piuttosto il sintomo di una malattia, i bassi salari come condizione strutturale di sopravvivenza nel mercato, che più dell’inflazione rischia di strozzare l’economia oltre che la dignità delle persone.