Tra le più note e brillanti scrittrici libanesi, Hoda Barakat vive da oltre trent’anni a Parigi, nella zona di Place de la République, epicentro dell’attacco terroristico che ha colpito la capitale francese. Profonda conoscitrice dell’opera di Marcel Proust e Robert Musil, ma anche dei poeti arabi del IX e del X secolo, indaga da sempre i simboli e la storia del paese mediorientale, restituendo della crisi di quella parte del mondo un’interpretazione che mette al primo posto la ricerca della libertà rispetto alle appartenenze comunitarie, religiose, di genere.

hoda

Nata nel 1952 a Beirut da una famiglia cristiano maronita originaria del Monte Libano, trasferitasi in Francia dalla fine degli anni Ottanta, città dove è stata per oltre un decennio responsabile della redazione giornalistica di «Radio Orient», una delle emittenti più ascoltate tra i francesi di origine araba, Barakat ha pubblicato cinque romanzi di grande fascino e potenza narrativa – di cui nel nostro paese sono stati tradotti Malati d’amore (Jouvence) e L’uomo che arava le acquee (Ponte alle Grazie) – e la raccolta di articoli usciti sul giornale arabo aI Hayat, Lettere da una straniera (Ponte alle Grazie) sulla sua esperienza di esilio volontario. Il suo ultimo romanzo, Le Royaume de cette terre, uscito per Actes Sud nel 2012 è inedito nel nostro paese.

Lei si trova attualmente in Italia per partecipare al convegno «Conflitti e rivoluzioni» organizzato dalla Società delle letterate a Firenze. Qual è stata la sua reazione alla notizia delle stragi a Parigi?

Ho passato tutta la notte a telefonare ai miei figli per essere certa che stessero bene e fossero al sicuro. Non abito lontano dal Bataclan, per me quelli sono luoghi familiari. Non riesco davvero a dare un senso a ciò che è accaduto. Queste persone, questi assassini sono come automi usciti da un film dell’orrore di cui è difficile scorgere anche vere rivendicazioni per i loro atti. Temo che siamo entrati in una nuova era della storia umana, dominata dal terrore, ma che non siamo in grado di decifrarla appieno perché disponiamo di strumenti antiquati, superati dai fatti. Non comprendiamo il nichilismo dell’Isis e soprattutto non capiamo fino in fondo come questo appello al terrore e alla morte possa conquistare una parte delle nuove generazioni, fare proseliti in paesi che conoscono da tempo la guerra, ma anche in Europa, nei nostri quartieri.

Non abbiamo a che fare con un’ideologia che può essere sconfitta dando questa o quella risposta. Per il momento credo che l’unica cosa da fare sia cercare di affinare il nostro sguardo per capire davvero con che cosa ci stiamo misurando, certi solo del fatto che si tratta di una minaccia inedita.

Dopo la strage a «Charlie Hebdo» lei ha scritto per «le Monde» un breve testo intitolato «La vergogna e il rifiuto» in cui spiegava come quegli assassini fossero figli della violenza integralista, ma anche delle promesse mancate della République.

Quando le Monde mi ha chiesto di intervenire non ero ottimista, perché già intravedevo ciò che sarebbe seguito al quel primo momento di mobilitazione collettiva, come infatti è avvenuto. Passata la rabbia e la paura, si è infatti smesso subito di interrogarsi sui motivi che possono spingere giovani nati e cresciuti in Francia ad identificarsi con un’ideologia suicida e di morte. Per molti versi sono degli «orfani della République», una delle conseguenze più terribili e drammatiche del fatto che la Francia democratica non ha mai assunto fino in fondo il proprio passato coloniale e imperiale.

Al centro del suo lavoro di scrittrice sembra esserci il desiderio di indagare il modo in cui i singoli possono sottrarsi all’abbraccio fatale della comunità. Si sarebbe portati a pensare che si tratti di una sorta di fuga dalle appartenenze, è così?

Per molti versi credo proprio di si. I miei personaggi tentano in tutti i modi di sottrarsi alle costrizioni e alle leggi non scritte che regolano l’appartenenza ad una determinata comunità, gruppo o fede religiosa e alla violenza cieca che rappresenta spesso il terribile corollario a questa appartenenza. Questo tentativo avviene attraverso forme diverse in ciascuno dei miei romanzi, ma si tratta di un tema che attraversa tutto il mio impegno letterario. In qualche modo è come se avessi sempre voluto prendere in esame le forme, anche le più estreme, che gli esseri umani possono dare alla ricerca della libertà che è poi anche una fuga dal male, dalla corruzione, dall’odio.

Il conflitto tra comunità è alla base della lunga tragedia libanese che, come mostra il terribile attentato avvenuto giovedi a Beirut, non si è mai conclusa del tutto. La realtà del Libano non cessa di essere analizzata nei suoi romanzi, fino a «Le Royaume de cette terre», che evoca la genesi dello scontro tra gruppi confessionali che porterà alla guerra civile. Ha individuato le cause di tutto ciò?

In questo romanzo ho cercato di comprendere come si sono sviluppati quei fenomeni che riguardano sì la società libanese ma più in generale la vita di tutte le minoranze culturali e religiose presenti nel Medioriente. Si potrebbe infatti dire lo stesso dell’Iraq o della Siria. Non si può infatti non interrogarsi sulle derive che hanno caratterizzato questi paesi in cui lo stato e le istituzioni, malgrado siano spesso sorte dai movimenti di liberazione nazionale degli anni Cinquanta, non sono state in grado di costituire società coese, in grado di tenere insieme le proprie differenze senza andare in pezzi o affogare nella violenza.

Ho scelto una famiglia di un villaggio della montagna perché è la realtà che conosco meglio, per tentare di capire cosa è andato storto non soltanto in Libano, ma anche nel resto del mondo arabo. Il risultato è che se si sostituisce alla famiglia maronita di cui parlo una qualunque famiglia di qualunque altra comunità del Medioriente rintraccerete le stesse dinamiche che conducono questo mondo verso l’implosione. E ciò è avvenuto perché queste comunità non hanno mai trovato un tessuto unificante che le facesse sentire parte di qualcosa di più complesso.

Malgrado abbia scelto di vivere a Parigi fin dal 1989, lei ha spesso spiegato di non sentirsi un’esiliata, perché?

Credo che per me la condizione dell’esilio sia qualcosa di profondamente interiore che ha poco a che fare con la geografia. Non sono neppure sicura che il termine abbia una connotazione del tutto negativa, legata alla nostalgia, alla tristezza, alla perdita di ciò che amavamo da bambini. L’esilio può essere anche un luogo di libertà. Ad esempio credo di aver potuto continuare a scrivere del Libano proprio perché me ne sono andata, se fossi rimasta il mio sguardo sarebbe stato meno critico, meno radicale, più conciliante verso un modo di vivere assurdo. Perciò posso dire che in realtà è in Libano, negli anni della guerra civile, combattuta tra il 1975 e il 1990, quando era diventato difficile e pericoloso comunicare con chiunque che ho conosciuto una vera forma di esilio. Per i cristiani non ero più una buona cristiana; per i musulmani appena dicevo una cosa che non gli piaceva, ero «la cristiana». Allo stesso modo, per gli ambienti della sinistra a cui appartenevo, bastava che parlassi in modo critico di qualche azione violenta compiuta dai militanti palestinesi che vivevano in Libano perché mi si considerasse di destra, visto che ero una maronita della montagna. Questo senza contare che all’epoca per ottenere del pane o una bombola di gas bisognava appartenere ad una comunità, se no non ne avevi diritto. E quando ti imbattevi in un posto di blocco dovevi essere certa di mostrare la carta d’identità giusta, visto che un errore poteva costarti la vita. Quando ho avuto troppa paura per me e i miei figli, ho capito che era venuto il momento di partire.