Da qualche giorno Safwat Kahlout, giornalista e producer di Al Jazeera, è fuori Gaza grazie alla sua residenza in Italia. Con la famiglia si è stabilito, grazie all’aiuto di una fondazione italiana e al sostegno di amici, in un paesino in collina a qualche chilometro da Terni. «Ora ci sentiamo al sicuro e proviamo a superare il trauma subito, ma il nostro pensiero va ai nostri parenti a Gaza e tutti i palestinesi che restano sotto le bombe», ci dice Kahlout. Abbiamo raccolto la sua testimonianza.

Per 18 anni Gaza è stata soggetta ad operazioni militari israeliane che hanno fatto migliaia di morti e feriti. Questa volta però la Striscia rischia la distruzione totale.

Questa offensiva è stata subito diversa dalle precedenti. Perché l’esercito israeliano ci ha ordinato di sfollare dal nord di Gaza, di abbandonare le nostre case e di andare al sud. Per noi tutti è stato uno choc. Abbandonare le proprie case è un trauma nazionale che i palestinesi si portano dentro dal 1948. I bombardamenti sono stati violenti e continui, soprattutto nelle prime settimane (dell’offensiva israeliana). Durante la notte, ricordo, ci abbracciavamo forte per morire tutti insieme. Poi siamo scappati a Deir al Balah (nel centro di Gaza, ndr) dove la mia famiglia ha un piccolo appartamento. La fuga è stata una odissea. Mi ritengo fortunato perché posseggo o, meglio, possedevo, un’auto e una casa dove rifugiarmi, mentre gran parte della gente del nord di Gaza non aveva un posto dove andare. Ed era allo sbando.

Quella a Deir al Balah è stata solo una prima tappa.

Sì, perché poco dopo siamo stati costretti a fuggire verso Rafah. Al Jazeera ci ha detto di raggiungere a una palazzina di tre piani e di unirci alle famiglie di altri dipendenti dell’azienda. Poi Israele, dopo aver occupato e distrutto gran parte di Khan Yunis, ha annunciato di voler attaccare anche Rafah. Così siamo tornati a Deir al Balah. Le bombe comunque cadevano ovunque, non c’erano luoghi sicuri per nessuno. Nelle settimane precedenti avevo fatto richiesta di uscire con la mia famiglia. Non volevo andare via da Gaza, ma ho voluto salvare mia moglie e i miei figli portandoli in Italia. A fine marzo siamo usciti tutti. Abbiamo raggiunto il Cairo e da lì siamo partiti per Roma. Mi rendo conto di essere un privilegiato. Il resto degli abitanti di Gaza è in condizioni disperate, senza cibo, senza casa. Tanti bambini sono rimasti soli, altri palestinesi hanno perduto la famiglia sotto le bombe, altri ancora sono stati feriti gravemente e non possono curarsi a Gaza.

Quali sono stati i giorni più difficili?

Abbiamo sfiorato la morte più volte a Gaza city, a Deir al Balah e Rafah. Le bombe cadevano accanto a noi e sapevamo che la nostra vita era appesa a un filo. Poi abbiamo dovuto fare i conti con la mancanza di cibo. Non c’era nulla nei negozi e al mercato nero il cibo costava tantissimo. Ho temuto molto la mancanza di medicine per mio figlio che deve prendere ogni giorno un anticoagulante. Ho passato giornate intere a cercarlo ovunque.

E dovevi anche lavorare, correndo rischi altissimi. Oltre 100 giornalisti e operatori dell’informazione sono stati uccisi a Gaza.

Sono stati sei mesi di eccezionale difficoltà per il lavoro, in cui diversi nostri giornalisti sono stati presi di mira. Conoscete il caso del mio capoufficio, Wael Dahdouh, che in due attacchi aerei ha perduto la moglie e alcuni figli. Come producer mi sono trovato a dover fare i conti con una offensiva militare enorme dalle conseguenze gigantesche mentre l’ufficio di Al Jazeera a Gaza aveva a disposizione un numero limitato di giornalisti. In un contesto di guerra, ho dovuto individuare e contrattualizzare colleghi indipendenti in grado di darci una mano, spesso rischiando la vita. Io stesso sono stato impiegato per collegamenti live in lingua araba e in inglese. Tutto ciò mentre le reti telefoniche palestinesi venivano bloccate (dagli israeliani) o cessavano di funzionare per la mancanza di gasolio per i generatori autonomi.

Al Jazeera ha svolto un lavoro decisivo in questi mesi. Il premier israeliano Netanyahu però vi considera una rete televisiva nemica e legata ad Hamas e intende usare una legge appena approvata per chiudere la vostra sede a Gerusalemme.

Ci sono sempre quelli che hanno paura della verità e Al Jazeera mostrandola ogni giorno con i suoi servizi e le sue dirette ha diffuso informazioni importanti su quanto accade a Gaza. Le intenzioni di Israele sono chiare. Però nel mondo tanti non credono più alle narrazioni israeliane. Anche i paesi alleati (di Tel Aviv) non danno più pieno credito alle versioni israeliane. Il giorno in cui i media internazionali potranno entrare a Gaza, sarà ancora più evidente che il nostro lavoro è stato professionale e svolto con coraggio e passione, nel nome dell’informazione.