Joseph Beuys: il motivo più profondo per parlarne è il mio bisogno di raccontarlo sulla base di una personale esperienza, e di mostrare quanto arte e vita fossero in lui due cose inscindibili; cercare di far capire come l’arte per Beuys non restasse intrappolata in dilemmi estetici ma, al contrario, fosse uno strumento di risveglio culturale in grado di scuotere ogni persona entrasse in contatto con la sua opera, le sue parole, lui stesso e in generale l’insieme del suo comportamento.

Joseph Beuys guardava all’arte come strumento di autoconsapevolezza, di cambiamento artistico e al tempo stesso sociale. Così come le sue opere, anche lui come persona aveva la «magica» capacità di influenzare e di cambiare per il meglio la vita di qualcuno, mostrandogli una nuova strada. Per farvi capire cosa intendo vi parlerò un po’ del mio rapporto con lui e di quanto abbia pesato sull’andamento della mia, di vita.

Studiavo giurisprudenza. Avevo 25 anni. Un giorno caldo di giugno, in compagnia di un amico, scendevo, ad Atene, per via Plutarcu, che si trova vicino alla piazza di Kolonaki. Passando davanti alla vetrina di una galleria d’arte, all’improvviso mi bloccai. Avevo visto, in fondo, alcuni disegni incorniciati appesi al muro. D’impulso entrai e mi misi a guardarli. Mi concentrai su uno di essi, cercando di interpretarlo al mio amico. Mentre gli parlavo, all’improvviso si avvicinò un uomo sui sessant’anni: portava un capello di feltro, dei jeans e un gilet da aviatore. Mi chiese in inglese: «cosa mostri e spieghi al tuo compagno con gesti così eloquenti? È da un po’ che ti osservo». Lo guardai e mi sentii un po’ strano per il suo modo eccentrico di vestire. Gli occhi blu, però, avevano qualcosa di tenero e di umano, di amichevole, che placava il mio iniziale timore. «Mi è piaciuta la fluidity del disegno e delle sue linee», risposi. E lui subito esclamò: «Fluxus, yes, Fluxus». Non capivo: «Che pazzo è questo qui», pensai. D’altronde non mi intendevo affatto di arte contemporanea. Quindi non sapevo con chi stessi parlando. Ero solo uno studente di giurisprudenza che adorava la poesia e la filosofia. E visto che la parola «Fluxus» mi appariva ignota e curiosa, volli spiegarmi meglio, pensando non avesse compreso ciò che gli avevo detto. E aggiunsi: «Mi fa pensare a Eraclito e alla sua frase: tutto scorre». Allora l’ignoto sessantenne che mi stava davanti, alzando con entusiasmo la voce, urlò «Heraclitus!!! Heraclitus!!!». E aggiunse in greco: «Panta rei». Allora, istintivamente, gli risposi con un’altra formula di Eraclito che mi era venuta in mente: «Pòlemos pànton patèr», «La guerra è padre di tutte le cose». Mi rispose subito con un’altra frase, sempre di Eraclito, io ribattei con un’altra, e il dialogo, attraverso le battute del filosofo greco, continuò per quasi due minuti. La gente attorno ci guardava incuriosita e ascoltava. Alla fine, gli chiesi in inglese: «È greco, lei?»; e lui: «No, sono tedesco». E subito dopo mi chiese: «Vuoi venire a cena con la nostra comitiva?». «Sì», risposi senza esitazione, affascinato dalla personalità di questo sconosciuto di cui, ripeto, ignoravo del tutto l’identità e la qualifica. Di lui non sapevo nulla.

Il mio amico se ne andò, e io dopo venti minuti mi ritrovai alla taverna di via Filipu a Kolonaki insieme a un gruppo di stranieri. Tutti, come seppi dopo qualche mese, quando scoprii chi fosse quel signore insolito con il cappello di feltro e il gilet militare, erano importanti personalità dell’arte contemporanea. C’erano Tom Krens, allora direttore della Solomon R. Guggenheim Foundation di New York, il gallerista Bernd Klüser e altri. Nonostante mi guardassero in modo strano, non dissero nulla e, durante l’intera cena, mi lasciarono discutere di filosofia con Beuys, di cui ignoravo il nome e la storia. Ero semplicemente affascinato da lui come persona. Aveva qualcosa di etereo, come se non toccasse terra, anche se su di essa camminava.

Alla fine della cena mi diede il suo nome, indirizzo e numero di telefono. Ma anche allora per me tutto ciò non significava nulla. Dopo pochi mesi, andai a far visita a un’amica a Parigi. Un giorno, passando per la celebre libreria À la Hune, vidi in vetrina, enorme, la foto di Beuys. Dissi subito alla mia amica che lo conoscevo, ma lei non mi credette. Andammo a casa sua e lo chiamai. Dall’altra parte della linea sentii: «Ya, Beuys». «Ehi, Joseph, sono Dimosthenis, il poeta greco». Non feci in tempo a finire la mia frase che mi invitò il giorno dopo a Düsseldorf. Andai e restai ospite suo per tre giorni. Parlammo di arte, poesia, gli lessi le mie poesie e gli mostrai i miei disegni. Mi diede tanti consigli. Il terzo giorno, senza chiedermelo, mi invitò a Berlino, dove il presidente della famosa borsa di studio DAAD mi diede una borsa per quattro mesi.

L’incontro con Beuys mi cambiò la vita, perché grazie alle persone che conobbi proposi delle interviste a Liberation, che vennero subito pubblicate. In questa maniera all’improvviso entrai dal nulla nel mondo dell’arte, con istinto di poeta, e iniziai a scrivere sugli artisti più grandi: Wahrol, Basquiat, Baselitz, Jasper Johns, Abramovic etc.

Questo era Beuys. Voleva arricchire il mondo dell’arte con persone nuove, pur estranee a quel mondo. Voleva, come il movimento Fluxus di cui fu uno dei fondatori, unire tutte le espressioni, indipendentemente dalla loro provenienza, in un luogo comune: la creatività. Non accettava che l’arte restasse confinata nel circuito delle Beaux arts; perciò sosteneva che «ognuno è un artista», intendendo che ognuno porta dentro una forza creativa; basta scoprirla. Per questo parlava della società come fosse una scultura: social sculpture; per questo diceva che l’arte deve essere «antropologica», perché aveva come misura l’essere umano. Beuys guardava all’arte come una «terapia». Quando, da soldato, cadde con il suo aereo in Crimea e venne curato da un gruppo di nomadi con la medicina sciamanica, prese il loro simbolo per usarlo nella propria arte. Quando si riprese e tornò a casa, studiò, non medicina come aveva sempre voluto fare, ma presso l’Accademia di Belle arti di Düsseldorf. Ciò significa che sin dall’inizio considerò l’arte una «terapia». Dopo aver finito gli studi, restò per qualche anno in un’azienda agricola di amici, dove osservò la natura e venne a essa iniziato. E quando, nei primi anni sessanta, cominciò a fare le sue famose performance e installazioni, i materiali da lui scelti (grasso, miele etc.) erano di forma fluida. Riuscì a realizzare il proprio sogno: creare opere fluide, non solide, come pretendeva la sua filosofia; come la vita che scorre, come il fiume che scorre, secondo il dettato eracliteo «tutto scorre». Arte e vita nella sua opera sono inscindibili. La prima integra la seconda e viceversa. Nietzsche e Schopenhauer sognarono che la vita divenisse arte. Beuys realizzò questo sogno. Tutta la sua opera, citando Aristotele, è al contempo pensiero e azione, sia in atto sia in potenza.

Quasi dieci giorni prima di morire mi invitò a cena a casa di Liliane e Michel Durand-Dessert a Parigi. Lo vidi con lo sguardo un po’ altrove. Gli chiesi: «Tutto bene Joseph?». E lui mi rispose indicando il cielo con il dito: «Tutto bene. Sono sulla strada». Non capii o non volli capire. Aveva già iniziato il viaggio verso il paradiso.

traduzione di Christos Bintoudis